Loro avevano il tempo
di Franco Fabbri
dal numero di maggio 2018
Come mai interessa così tanto la musica del Sessantotto? Immagino che una delle ragioni sia la normalissima frenesia per gli anniversari, così radicata nelle pratiche dei media e delle istituzioni, ma anche in quelle personali. Ci si emoziona tanto per il cinquantesimo compleanno, ma non per il quarantanovesimo o qualunque altro nella decina precedente o successiva. C’è un’attenzione spasmodica per le cifre tonde: vi ricordate il Duemila (c’era anche l’incubo fasullo del “millennium bug”)? Tutto questo nonostante che gli avvenimenti importanti abbiano il vizio di presentarsi in anni qualsiasi: il 1492, il 1789, il 1861, il 1917, il 2001. Perfino Gesù è nato fra il 7 e il 4 avanti Cristo. Ma poi, quando è che si ricordano quegli avvenimenti con maggiore fervore? Un numero intero di decine di anni dopo: nel decennale, nel cinquantennale, nel centenario, e multipli relativi. Abbiamo dieci dita nelle due mani. Gli ottopodi del film Arrival quando commemorano? E dire che uno dei sistemi di numerazione ormai più diffusi è quello esadecimale: forse gli informatici celebreranno gli anniversari basandosi sul numero FF? Quest’anno è l’FF-nario del 1763, anno in cui Joseph Haydn compose tre sinfonie: perché non fare una bella settimana haydniana alla radio? Ma basta così: anni fa (sedici, ovvero 00001000 in binario, o 10 in esadecimale: bei numeri) per la mia antipatia verso le ricorrenze mi bruciai una carriera di conduttore radiofonico. Scrissi su un quotidiano che una certa settimana mozartiana mi aveva dato la nausea, come una torta al limone, e il direttore della radio chiese a un collaboratore: “Ma questo qui lavora per noi?”
Il ’68, non il Sessantotto
Col ’68 però è diverso. Perché allora avevo diciott’anni, e non si ha quell’età più di una volta nella vita. Il ’68, però, non il Sessantotto. Questo è durato una decina di anni, non si sa bene quando sia finito (qualcuno a volte mi dice: “Ma non ti sei accorto che il Sessantotto è finito?”), e nemmeno quando sia cominciato. Per di più, quando in Italia si parla della musica del Sessantotto, i ricordi vanno in gran parte a musiche degli anni settanta già inoltrati. Lasciamo, quindi, che si celebri il cinquantenario di La locomotiva nel 2022, di Stalingrado nel 2023, di Gioia e rivoluzione nel 2025. Tre altre canzoni, secondo me, primeggiano nel ricordo del 1968.
La prima, quasi inevitabilmente, è Contessa di Paolo Pietrangeli, che fu composta due anni prima, ma che secondo tutte le testimonianze (anche quelle dell’autore, e quelle che ho trovato o raccolto) era cantata nel ’68 in tutte le manifestazioni. Lo stesso autore ha curato nel 2005 un dvd, Ignazio, al quale partecipano fra gli altri Ettore Scola, Giovanna Marini, Daniele Silvestri; contiene un bel montaggio con riprese di Pietrangeli che la canta, e altro materiale. È visibile anche su YouTube, e rende più giustizia alla canzone e al suo autore (e regista) rispetto alla registrazione originale dei Dischi del sole, un po’ troppo beneducata nonostante la deliberata ferocia del ritornello.
Un’altra canzone del ’68, composta e registrata proprio allora, è Chacun de vous est concerné, di Dominique Grange. A differenza che in Francia, allora in Italia rimase del tutto sconosciuta, e a lungo è stata tenuta nascosta dalla Canzone del maggio di Fabrizio De André, inclusa nell’album Storia di un impiegato, del 1973. Cinque anni dopo quel maggio, De André aveva scritto una parafrasi del testo di Grange, adattandolo a una propria musica; il produttore Roberto Dané andò a Parigi per assicurarsi i diritti di traduzione, e Grange (militante rivoluzionaria, tuttora) li concesse generosamente, forse un po’ ingenuamente. Sulla copertina dell’album di Fabrizio si dice della Canzone del maggio che è “liberamente tratta da un canto del maggio francese 1968”, ma confrontando i due testi quel “liberamente tratta” suona un po’ fasullo, e anche quel “canto” appare inutilmente accademico: Chacun de vous est concerné è una canzone, un po’ nello stile del Dylan “politico”. E perché non nominare l’autrice: forse perché non si è fatta pagare? Ma Grange non se l’è presa, anzi. In rete si trova sia la versione originale del ’68, un po’ sbiadita come tutti i dischi autoprodotti di quell’epoca, sia una versione più recente, preceduta proprio da un omaggio a De André e commentata dalle belle illustrazioni del compagno di Grange, Jacques Tardi.
La terza canzone del ’68 che non posso dimenticare è Street Fighting Man dei Rolling Stones. Fu pubblicata negli Usa a fine agosto su un 45 giri (che non ebbe fortuna commerciale e fu bandito dalle radio per i contenuti “sovversivi”), e poi, anche in Europa, ai primi di dicembre nell’album Beggars Banquet. Se posso riferire un ricordo personale, a giugno ero stato travolto da un altro singolo, Jumpin’ Jack Flash, pubblicato a fine maggio (quel maggio): ero in un albergo in montagna a prepararmi per la maturità, unico cliente oltre a una coppia di sposini in viaggio di nozze, e nei momenti liberi mi rintanavo dietro al banco della reception, dove c’era una radio-giradischi Grundig di quelle col mobile di noce, con bassi esorbitanti, a godermi il ritorno degli Stones al rock duro dopo l’episodio psichedelico di fine 1967 (che pure mi era piaciuto tantissimo). Street Fighting Man, ascoltata nell’album alla fine dell’anno, arrivò come una conferma. Qui si parlava di manifestazioni e scontri di piazza, visti con un senso di privazione quasi nostalgica (“che cosa può fare un povero ragazzo se non cantare in una band di rock ‘n’ roll? Perché nella Londra sonnolenta non c’è proprio posto per un combattente di strada”), non con lo scetticismo diffidente dei Beatles nelle due versioni di Revolution. Ma mi colpivano soprattutto i suoni, quella chitarra (acustica, non elettrica) al limite della stonatura, registrata con un Philips a cassette miagolante, quella batteria slabbrata, suonata su un kit giocattolo (queste cose le avrei sapute molti anni dopo), e quel ritmo “impossibile”, e la voce di Jagger, così appropriata per dire quelle cose.
L’altro ’68 della musica
C’è altro nel ’68 della musica, sì. Non si possono non ricordare i cantautori italiani: Endrigo che vince a Sanremo, un anno dopo il suicidio di Tenco, Jannacci con le sue canzoni scritte insieme a Fo (Vengo anch’io, no tu no! e Ho visto un re, composte e registrate prima ma riunite in un album uscito all’inizio dell’anno), e i primi successi di Paolo Conte come autore (Azzurro per Celentano e Insieme a te non ci sto più per Caterina Caselli). Uscendo dall’universo popular (ma non ne sarei proprio sicuro), c’è la prima registrazione di In C di Terry Riley, pubblicata dalla Cbs. Il fatto che la casa discografica più importante del mondo pubblicasse un album con una composizione di un musicista fino ad allora del tutto marginale, che aveva girato le gallerie d’arte giocando con anelli di segnale realizzati con registratori a nastro montati in configurazioni “scorrette”, fa il paio con la decisione della stessa casa discografica, qualche anno prima, di offrire un contratto a un ragazzo sconosciuto del Minnesota che pretendeva di essere l’erede di Woody Guthrie. In C (“in Do”) fu composta nel 1964, quando quel ragazzo (Dylan) era diventato una stella internazionale, e nel titolo c’era un po’ della stessa protesta: in questo caso contro i santuari delle avanguardie musicali, come i Ferienkurse di Darmstadt. Per gli eredi autonominati di Webern e i simpatizzanti di Adorno il fatto di dichiarare nel titolo di un brano la sua tonalità (una qualunque tonalità) era una bestemmia, nonostante che il brano non sia davvero in Do e finisca (più o meno) suggerendo un accordo di settima di dominante. Ma il successo dell’album di In C, che colloca Riley fra i maestri di pensiero musicale delle controculture, assume in prospettiva il suo vero significato se si considera la distanza fra la partitura ridotta a una pagina, con cinquantatré moduli elementari da ripetere a piacere in sequenza, e il suono che ne risulta. Nel mondo delle accademie erano quelle poche note a costituire, se non lo scandalo, l’oggetto della derisione, perché secondo il senso comune di quel mondo la musica, l’opera, era la partitura, non il risultato della sua interpretazione. Proprio mentre il mondo sempre più ascoltava musica della quale non esisteva alcuna partitura, nemmeno lo schizzo buttato giù da Riley.
www.francofabbri.net
F Fabbri ha insegnato popular music all’Università di Torino