I dolori del giovane Parker
di Leonardo Ambasciano
Nel giugno del 1962 la Marvel Comics, una casa editrice newyorkese in precedenza conosciuta come Timely e Atlas e nota per l’irruenza con la quale era solita inondare il mercato editoriale di fumetti cavalcando le mode del momento, dava alle stampe il quindicesimo e ultimo numero di “Amazing Fantasy”. I contenuti mischiavano il fantastico con l’inquietante proponendo, attraverso una serie di colpi di scena alla Twilight Zone, campanari assunti in cielo, viaggi nel tempo attraverso sarcofagi egizi e marziani in incognito sulla terra. L’albo firmato dal quarantenne Stan Lee e dal trentacinquenne Steve Ditko sarebbe comunque finito nel dimenticatoio se non fosse stato per la prima storia, una manciata di tavole intitolata Spider-Man! e destinata a cambiare per sempre l’immaginario pop della modernità.
Il protagonista del racconto in questione è l’orfano Peter Parker, un occhialuto topo da biblioteca deriso dai compagni di scuola ma accudito con amore dagli zii May e Ben. Durante un esperimento tecnologico, un ragno accidentalmente colpito dalle radiazioni di un’apparecchiatura finisce sulla mano del giovane e lo morde. A seguito dell’incidente, Peter acquisisce forza e agilità proporzionali a quelle di un ragno, oltre a un’abilità precognitiva che verrà poi chiamata “senso di ragno”. Peter sfrutta subito i suoi nuovi superpoteri per ovviare alle difficoltà economiche degli zii, inventandosi un’identità da lottatore mascherato e una remunerativa carriera da star della televisione. Ma l’arroganza del parvenu ha un prezzo. Quando ha l’opportunità di fermare un ladro dopo il primo spettacolo in tv, Peter non muove nemmeno un dito. Una volta a casa, il giovane scopre che uno scassinatore ha appena ucciso suo zio Ben. Indossate le vesti dell’Uomo Ragno, Peter si mette sulle tracce dell’assassino e scopre che si tratta dello stesso criminale che avrebbe potuto fermare facilmente, evitando così la morte dello zio. Nella vignetta conclusiva la voce narrante fuori campo impartisce a un Peter distrutto dal rimorso – e al lettore – una tragica lezione morale: “Da un grande potere derivano grandi responsabilità”.
Il racconto è singolare non solo per la decisione di fare di un adolescente il protagonista della vicenda, i cui poteri sono per giunta dovuti a un ripugnante aracnide (due motivi che convinsero lo scettico editore della Marvel, Martin Goodman, a relegare questa storia in una collana destinata alla chiusura), ma anche per la mancanza di lieto fine. La storia era senz’altro fuori dagli schemi, ma non rappresentava un caso del tutto isolato. Da pochi mesi la Marvel aveva infatti cominciato a produrre albi fortemente innovativi in cui i tropi del genere supereroistico venivano rovesciati: i protagonisti non incarnavano più irraggiungibili ideali di perfezione, non erano semidei senza macchia e senza paura (Superman) o miliardari dongiovanni (Batman), ma persone comuni che vivevano l’acquisizione dei superpoteri, spesso legati alle angosce dell’era nucleare, come una spaventosa condanna. In pratica, supereroi con superproblemi.
Era una svolta che spiazzava. Persino un geniale interprete della cultura pop come Umberto Eco avrebbe frainteso nel 1971 le decostruzioni operate dalla Marvel, declassandole a “recenti reinterpretazioni critiche (al limite della satira)” delle consuete formule supereroistiche. Non si trattava però né di critica né di satira. Piuttosto, come ha notato Matt Singer, le storie dei nuovi supereroi Marvel erano contraddistinte da una sincerità che al massimo poteva essere scambiata dai non addetti ai lavori per ingenuo giovanilismo. I testi di Lee davano infatti voce ai personaggi della Marvel attraverso scambi di battute effervescenti, mentre le sue esuberanti comunicazioni editoriali creavano un inedito senso di solidarietà e complicità con i lettori. A rendere concreto questo nuovo modo di intendere il fumetto c’erano due artisti e cosceneggiatori, entrambi indiscussi protagonisti di “Amazing Fantasy” 15: Jack Kirby, autore dell’Uomo Ragno raffigurato sulla copertina e noto nell’ambito come The King, il “re”, per la prodigiosa velocità di esecuzione, per la forza sprigionata dai suoi personaggi, e per l’esplosiva composizione delle scene d’azione; e Steve Ditko, autore degli interni, dotato di un tratto nervoso, spigoloso e dinamico che ben si prestava alle acrobazie di un eroe particolare come l’Uomo Ragno.
Il successo inaspettato dell’albo si traduce a cavallo del 1963 nell’inaugurazione della serie regolare “The Amazing Spider-Man”, tuttora in corso di pubblicazione. Nel 1966, dopo trentotto numeri fondamentali per la fondazione di quella che Fabio Licari e Marco Rizzo definiscono come una “commedia collettiva dai risvolti drammatici, esistenziali e sentimentali”, Ditko lascia le matite al veterano autore di fumetti rosa e futuro art director John Romita Sr., che resterà fino al 1973, lo stesso anno in cui Lee passa il testimone a una nuova generazione di sceneggiatori. I cambiamenti editoriali non modificano la formula originaria: nonostante i fallimenti e il disprezzo dei mezzi di informazione nei confronti dell’Uomo Ragno, Peter Parker cerca di espiare il senso di colpa impegnandosi costantemente a fare del bene pur oscillando, nelle incisive parole di Ben Saunders, tra gli estremi adolescenziali di “determinazione e disperazione, risolutezza e rinuncia”. Non a caso, i tormenti del giovane Parker sarebbero diventati lo specchio etico e generazionale degli Swinging Sixties.
A sancire l’enorme fortuna della collana contribuiscono anche una struttura da Bildungsroman seriale e la ferrea continuity della Marvel: Peter cresce assieme ai suoi comprimari all’interno di un mondo coerente e interconnesso che si snoda lungo le pagine di ogni albo proposto dalla casa editrice. Secondo Douglas Wolk, l’universo narrativo della Marvel è difatti “una singola opera, un’epopea epica tra le epopee dell’epica, Marcel Proust moltiplicato per Doris Lessing moltiplicato per Robert Altman elevato alla potenza del Mahābhārata (la cui edizione critica conta circa 13.000 pagine – grosso modo lo stesso numero di pagine contenute in ogni albo di The Incredible Hulk uscite finora)”. Lo stesso Lee, parlando della sua collaborazione con Kirby in un intervento riportato dall’ex editor-in-chief della Marvel Roy Thomas, avrebbe affermato che “dopotutto, una mitologia è una mitologia, e chi lo dice che non possiamo inventare i nostri miti?”.
In una recente rassegna storiografica, Thomas ha definito Spider-Man! “senza ombra di dubbio” come “una delle migliori origini di supereroi a fumetti, per di più svolta in appena undici pagine”. Non è l’unico a pensarla così. Nel 2008 le tavole originali di “Amazing Fantasy” 15 sono state donate alla Biblioteca del Congresso degli Stati Uniti come documento di rilevanza storica nazionale. Nel 2021, una copia dell’albo è stata venduta a 3,6 milioni di dollari. L’anno scorso, Penguin ha inaugurato la prestigiosa collana “Marvel Collection”, e tra i primi volumi pubblicati figura proprio una selezione di storie fondamentali dell’Uomo Ragno firmate da Lee e Ditko, inclusa la ristampa integrale di “Amazing Fantasy” 15 e di “The Amazing Spider-Man 1”. Stan Lee aveva un tempo dichiarato, con un filo di rammarico, di aver sempre voluto scrivere il “grande romanzo americano”. Nel giugno del 1962 non poteva ancora saperlo, ma gli albi di “Amazing Spider-Man” realizzati assieme a Ditko e a Romita sarebbero diventati il più grande romanzo americano del secondo Novecento.
leonardo.ambasciano@gmail.com
L. Ambasciano è stato managing editor presso il “Journal of Cognitive Historiography”
Una nota sul ragnoverso
di Andrea Pagliardi
Spider-Man: Into the Spider-Verse, vincitore dell’Oscar nel 2018, era diverso non soltanto dagli altri film sullo Spararagnatele, ma anche da qualsiasi altro lungometraggio supereroistico in live action o animazione.
E così oggi, con il secondo capitolo, Spider-Man: Across the Spider-Verse, da poco uscito nelle sale italiane, è diventato pressoché impossibile parlare dell’Uomo Ragno e non fare almeno un accenno alla trilogia del Ragnoverso che si concluderà nella primavera del 2024 con Spider-Man: Beyond the Spider-Verse. Si tratta (e non ho tema di smentite) del più riuscito progetto cinematografico mai dedicato a un eroe dei fumetti. In un’epoca di universi cinematici live action in cui i film sui supereroi hanno conquistato le piattaforme a suon di star hollywoodiane su green screen, gli autori Phil Lord e Christopher Miller abbracciano in controtendenza il linguaggio dell’animazione, cambiando per sempre e a livello planetario l’immagine di Spiderman.
Una sceneggiatura azzardata e travolgente è la solida base per creare un ponte tra il mondo dei comics e quello del cinema e costruire un grande omaggio a sessant’anni di avventure a fumetti del personaggio creato da Stan Lee e Steve Ditko. Tutte le versioni alternative dell’Uomo Ragno, esito dello sfrenato sfruttamento di un marchio vincente da parte della Marvel, vengono prese sul serio – non senza una buona dose di ironia – e inserite in un gigantesco affresco narrativo, sfruttando in modo del tutto innovativo il tema degli universi paralleli. A cominciare proprio dal protagonista Miles Morales, Uomo Ragno afro-americano creato per omaggiare Obama (esordio in “Ultimate Comics Fallout”, n. 4, 2011), per proseguire con il buon vecchio Peter Parker (in realtà presente in diverse versioni) e approdare a bizzarre varianti come Peter Porker/Spider-Ham, parodia scritta da Tom De Falco (esordio in “Marvel Tails” n. 1, novembre 1983), Pavitr Prabhakar, Uomo Ragno di Mumbai (esordio in “Spiderman India”, n.1, 2008) o Hobie Brown alias Spider-Punk (esordio in “Amazing Spider-Man”, vol. 3, n.10, 2015), versione Sex Pistols del Super Ragno con tanto di chitarra elettrica. Si tratta insomma di un raro caso in cui l’ipercitazionismo così caro a fanatici e collezionisti riesce a superare le barriere dell’autoreferenzialità offrendo un prodotto filologicamente maniacale, ma al contempo godibilissimo dal grande pubblico. Anche dal punto di vista visivo Lord e Miller vincono la scommessa della raffinatezza mainstream con esiti sorprendenti: il dialogo continuo con il medium del fumetto attraverso layout fatti di vignette, retini, colori fuori registro e balloon, già presente nel primo capitolo, si rinnova ed evolve con scenografie liquefatte che ricordano Francis Bacon, scenari fluo travolti da linee cinetiche e fitti background dinamici à la Jackson Pollock.
Insomma, se già il primo film della trilogia aveva sconquassato il mondo dell’animazione, con il secondo l’incursione nel multiverso diventa più complessa e sostanziale, aprendo la strada al gran finale che tra un anno dovrebbe condurci oltre il Ragnoverso.