Promesse e minacce dal digitale
recensione di Elena Volpato
dal numero di gennaio 2013
Fred Ritchin
DOPO LA FOTOGRAFIA
ed. orig. 2009, trad. dall’inglese di Chiara Veltri
pp. 220, 46 ill. col., € 25,
Einaudi, Torino 2012
Dopo la fotografia… ancora la fotografia, ma così mutata nella sua natura costitutiva, nella sua frammentata composizione di byte e pixel, da aprire scenari di senso totalmente inediti non solo nel campo dell’immagine, ma in quello del reale a cui l’immagine fa, o ha smesso di fare, riferimento. Fred Richtin sembra a tratti voler trovare un altro nome per questa nuova tecnica che chiamiamo fotografia digitale. Teme che il mantenimento della parola fotografia non ci renda sufficientemente consapevoli della portata rivoluzionaria dell’aggettivo che la segue. Il digitale, le sue promesse e le sue minacce rischiano di entrare come un cavallo di Troia nel nostro immaginario, illudendoci di ricevere solo e null’altro che doni, e di poterli facilmente gestire, forti di una cultura che conosce la fotografia analogica da poco meno di due secoli.
Richtin si propone di aprire la pancia del cavallo di Troia mostrandoci quanto tutte le passate visioni critiche elaborate sulla fotografia analogica vengano a cadere, una a una, davanti al nuovo mondo digitale. Quale senso può più avere il moto di commozione di Roland Barthes? Nel guardare gli occhi del fratello di Napoleone ritratto in una foto diceva: “Sto guardando gli occhi che videro l’imperatore”, ma se nell’immaterialità eternamente modificabile dell’immagine digitale nulla più assicura che gli occhi di un personaggio ritratto siano il riflesso dei suoi occhi reali, se tutte le immagini pubblicate, indistintamente, passano attraverso il ritocco di Photoshop, come può l’immagine fotografica essere un momento di contatto con il reale passato? Come può essere evidenza di uno sguardo e non solo parvenza di uno sguardo sul mondo? E se non esiste un negativo, se non esiste una pellicola offerta a una luce condivisa che immerga osservatore e oggetto osservato in una medesima dimensione, com’è possibile guardare un’immagine senza perdersi nel rumore delle infinite copie identiche che nascono insieme, esattamente nello stesso istante di ciò che un tempo si sarebbe chiamato originale?
Neppure la fotografia spiegataci da Susan Sontag, come momento di potere e conoscenza, ha più molto a che fare con l’immagine digitale. La conoscenza nel dominio della modificabilità e falsificazione è esclusa. Il potere forse non muore mai, ma quello che derivava dalla possibilità di collezionare luoghi e persone come miniature dipinte nello stile che più si preferiva, quello ci è precluso o, quanto meno, ogni singola collezione di miniature è destinata a perdersi, fondersi e disgregarsi con le innumerevoli collezioni del Web: tutti imperatori, nessuno più imeratore. Il merito di Ritchin in questo libro è di cercare un cammino mediano tra facili abbandoni a visioni apocalittiche ed entusiasmi per panorami futuribili. Cerca con pazienza di circoscrivere le condizioni e i filtri necessari a salvare lo statuto di evidenza dell’immagine fotografica.
Cerca di allontanare la minaccia di una cultura visiva in cui nulla sia più credibile, ben consapevole che una simile prospettiva renderebbe l’informazione ancora più succube delle forme di potere di quanto non lo sia già ora. Ritchin vorrebbe giustamente mettere tutto in discussione, convinto che, se non lo si fa ora, non saremo più in grado di porre rimedio ai “doni” del digitale. La sensazione però, nel seguire passo passo i suoi esempi di fotogiornalismo spregiudicatamente intriso di Photoshop, è che il suo richiamo arrivi già, inevitabilmente, a cose fatte. Il cavallo è ormai dentro le mura cittadine, e non c’era verso di discuterne prima che ci fosse offerto in dono.
Oltre a una difficile regolamentazione, Ritchin prova anche a immaginare uno sviluppo consapevole della scissione tra realtà e immagini, dove cerca di trasformare l’inattingibilità del reale oltre la foto in una possibilità espressiva del mezzo. Se dietro ogni pixel non c’è un contatto diretto con il reale, sostiene Ritchin, ogni pixel potrà almeno farsi porta verso un’ulteriore informazione, in una concatenazione di dati che dilati i significati dell’immagine attraverso la possibilità del link, tipico strumento del digitale. Se la singola immagine non è più credibile neppure come feticcio nell’oceano contraffatto delle immagini, una fotografia contestualizzata, unita cioè ad altre immagini e a ogni possibile tipo di documento (da quelli scritti a quelli audio, ai filmati), può forse ritrovare il proprio significato. Una foto la cui superficie, opportunamente cliccata, rimandi ad altri contenuti digitali può condurre al formato più amato da Ritchin: il photoessay, un saggio fotografico in cui l’autore, ormai privato della responsabilità sul singolo scatto che giornali e riviste acquistano per poi modificare, possa rientrare in possesso della sua voce, orchestrando foto con foto e dichiarando la propria posizione con testi di accompagnamento, diventando credibile nell’articolazione di un ipertesto.
Forse Ritchin ha ragione: la complessità può soffocare la mistificazione, ma, si teme, solo per qualche tempo, perché la mistificazione è fatta per inventare storie ancor più complesse del reale.
elena.volpato@fondazionetorinomusei.it
E Volpato è conservatore presso la Gam di Torino e insegna storia dell’arte contemporanea alla Naba di Milano