La possibilità di un secondo sguardo
recensione di Marco Maggi
dal numero di maggio 2018
Joan Fontcuberta
LA FURIA DELLE IMMAGINI
Note sulla postfotografia
ed. orig. 2016, trad. dallo spagnolo di Sergio Giusti
pp. 233, € 22
Einaudi, Torino 2018
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Sotto la voce “furia” siamo soliti leggere un lungo capitolo della storia delle immagini, che dalle lotte iconoclaste al tempo di Bisanzio giunge alle distruzioni di opere d’arte perpetrate dall’Isis, coinvolgendo equanimemente Oriente e Occidente, come la tappa intermedia delle guerre d’immagini al tempo della Riforma sta a testimoniare. I sommovimenti contemporanei paiono tuttavia suggerire un’inversione di prospettiva, dalla quale le immagini potrebbero non figurare più esclusivamente nel ruolo di vittime inermi.
Nella sua veste di saggista, l’autore di La furia delle immagini, poliedrica figura di creatore visuale, curatore, docente, riflette sulla fotografia come “metafisica” della cultura visuale contemporanea, nel senso di luogo di manifestazione delle sue istanze cruciali. Da questo punto di vista il libro rappresenta la prosecuzione di La (foto)camera di Pandora. La fotografi@ dopo la fotografia (Contrasto, 2012, cfr. “L’Indice” 2013, n. 1). Comune è la focalizzazione – piuttosto che su questioni di ontologia dell’immagine – sugli effetti, sui “modi in cui l’immagine ci riguarda e ci colpisce”. Per Fontcuberta le immagini contemporanee sono infatti “attive, furiose, pericolose”, la loro “frenesia”, la loro “vita impazzita” è quella di una “valanga”, di un “branco”, di un “proiettile”.
In una sorta di bullet theory 2.0, Fontcuberta interroga le trasformazioni indotte nella ricezione delle immagini dalle due “rivoluzioni digitali” susseguitesi in rapida successione negli ultimi decenni: la digitalizzazione vera e propria e l’avvento del web 2.0. Nel campo di quelle che Vilém Flusser chiamava “immagini tecniche”, questi mutamenti hanno causato un vero e proprio sisma, che in linea con altri teorici, da David Tomas a Fred Ritchin, l’autore descrive come passaggio dalla fotografia alla postfotografia. Si tratta di un sommovimento perlopiù inavvertito, a differenza della “rottura tangibile” che aveva segnato l’avvento della fotografia nel campo della rappresentazione bidimensionale in precedenza egemonizzato dalla pittura, ma tanto più distruttivo, se è vero che, nella “faglia invisibile” che si è venuta ad aprire, le pratiche fotografiche anteriori sono state letteralmente inghiottite. I cambiamenti tecnologici nei dispositivi e nei loro spazi di utilizzo sono infatti all’origine di una profonda crisi delle funzioni tradizionalmente assolte dalla fotografia in relazione alla verità e alla memoria.
L’immagine postfotografica
Con una delle tante formule felici di cui il libro è costellato, Fontcuberta osserva che, con l’avvento del digitale, la verità, da “fissazione” che era (con riferimento anche ai procedimenti chimici coinvolti nella fotografia analogica), è diventata un’“opzione”; alla rappresentazione si è sostituita la connettività. Parallelamente, nelle reti in cui le immagini non risultano semplicemente impigliate, dal momento che ne costituiscono la fibra stessa, la dimensione temporale dominante di un presente sospeso, eternizzato, ha condotto all’eclisse della funzione memoriale della fotografia, a vantaggio di quella comunicativa legata alle esigenze del momento. Scivolano dunque in secondo piano, nell’immagine postfotografica, i valori in precedenza primari della materialità e della qualità. Parafrasando Bauman, Fontcuberta parla di epoca delle “immagini liquide”, di una “fotografia discorsiva”, la quale, dalla parentela con la scrittura impressa nel suo stesso nome (foto-grafia), passa ad assumere la transitorietà della dimensione orale: da ciò conseguono la crisi della natura di feticcio dell’immagine fotografica (il libro contiene un capitolo sulla crisi attuale delle “foto voodoo” degli album di famiglia) e le difficoltà inerenti alla sua musealizzazione, in sintonia con le tendenze contemporanee verso un’arte intangibile ed esperienziale che rinuncia programmaticamente alla natura oggettuale dell’opera. Contemporaneamente, nell’iconosfera attuale la velocità risulta privilegiata rispetto all’istante decisivo, la rapidità rispetto alla raffinatezza, come d’altra parte testimonia uno dei generi più frequentati nel contesto postfotografico, la collezione o enciclopedia, nella quale la qualità delle singole immagini risulta meno decisiva della loro quantità e del loro accumulo.
Il riferimento alle pratiche postfotografiche consente di accennare alla componente propositiva del libro, che costituisce anche la più significativa evoluzione rispetto a La fotocamera di Pandora. I titoli delle due opere alludono in modo convergente allo sconvolgimento prodottosi nel mondo delle immagini; ma mentre nel libro precedente l’avvento della postfotografia era osservato con un’attitudine ex professo malinconica, La furia delle immagini è animato da un atteggiamento diverso, di piena accettazione della sfida rappresentata dalle rivoluzioni in corso. Il discorso di Fontcuberta si articola qui intorno a una concezione della creazione come assegnazione di senso, come “adozione” di immagini prelevate dal marasma iconico contemporaneo, alle quali l’artista (per il quale l’autore conia il neologismo di “prescrittore”) concede la possibilità di un “secondo sguardo”. Programmaticamente sulla linea concettuale impressa all’arte contemporanea dalla svolta operata da Duchamp, la postfotografia trova nella pratica della photo trouvée l’espressione più tipica, come la stessa produzione creativa di Fontcuberta testimonia con ricca inventiva.
Forte anche dell’instancabile attività di curatore svolta dall’autore, la panoramica sulle pratiche postfotografiche condotta in questo nuovo libro risulta originale nella scelta dei casi di studio, acuta nelle interpretazioni, felice nelle formulazioni critiche. I capitoli sul selfie, sullo sguardo animale, sull’immagine fotografica come specchio – oltre a quelli già ricordati sull’album di famiglia, sulla photo trouvée, sulla collezione – costituiscono mappature accurate e concettualmente affilate di territori dell’immagine di recente emersione. Tra le prospettive di ricerca accennate ma non sviluppate nel libro andrebbero approfondite le modalità partecipative di creazione fotografica, nelle quali l’enfasi sulla processualità e sulle modalità collaborative forniscono modelli alternativi tanto all’annullamento della temporalità e alle tendenze narcisistiche annidati nel modello del selfie, quanto all’orientamento concettuale della photo trouvée. All’interno di siffatti contesti collaborativi l’artista, oltrepassando il ruolo ancora auratico del “prescrittore”, assume, come suggerisce Charles Traub, quello più democratico dell’“interlocutore creativo”.
marco.maggi@usi.ch
M Maggi insegna letteratura e arti all’Università della Svizzera italiana