Giulia Niccolai, fotografa e scrittrice dall’ironia benevola

Vivere allo specchio, al cospetto di sé e di un’altra

di Virginia Giustetto

Il numero 45 di “Riga” è dedicato per la prima volta a una donna. Si tratta di Giulia Niccolai (Milano, 1934-2021), intellettuale dall’ingegno multiforme e metamorfico, figura complessa e difficilmente classificabile, dalla cui opera è tuttavia possibile cogliere coerenza estetica e unitarietà di intenti, sempre nel segno di un’insistita ricerca formale e letteraria, attraversata dal gusto per l’imprevedibile e l’arguto. Il volume, curato da Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti, si apre con un’antologia di testi di Niccolai scritti tra gli anni sessanta e il 2018, introdotta da Giammei e accompagnata da un saggio biografico a opera di Palmieri. Seguono alcuni scritti saggistici di Niccolai, una raccolta di interviste, una selezione di critica – con interventi di Giorgio Manganelli, Alfredo Giuliani, Rossana Campo, tra gli altri – e infine una serie di saggi che mettono efficacemente in luce il rinnovato interesse per l’autrice, la cui opera, polimorfa e mutevole, nel complesso non è ascrivibile ad alcuna stagione del Novecento e tuttavia risulta intrinsecamente e straordinariamente novecentesca.

Giulia Niccolai: fotografa, scrittrice, poetessa di nonsense e poetessa visiva, traduttrice di Virginia Woolf e Gertrude Stein, infine monaca buddista. Ha aperto e successivamente chiuso molte porte: esplorato, sperimentato, creato, voltato pagina. Figlia di un italiano e di un’americana – e per sempre scissa a partire da questo primo, irriducibile, sdoppiamento – è stata fotoreporter tra gli anni cinquanta e sessanta, poi legata al Gruppo 63, redattrice di “Quindici”, fondatrice, insieme ad Adriano Spatola e a Corrado Costa, dell’iconica “repubblica dei poeti” del Mulino di Bazzano, di “Tam tam” e di una piccola casa editrice, ideatrice delle poesie frisbee, brevi componimenti da lanciare, a metà strada tra “epifanie private” ed epigrammi.

Ne emerge il ritratto di un’autrice e di un’opera debordanti, non nei termini di uno sforzo eccessivo e sproporzionato, quanto, piuttosto, di una fertile ricerca che si protrae sempre oltre i limiti prestabiliti, i confini canonici, le forme chiuse e compiute (di lei Giammei scrive: “è sempre stata due cose al contempo. Ha vissuto allo specchio, al cospetto di sé e di un’altra”), che abbraccia la contaminazione e presta attenzione ai margini.

Niccolai è una figura chiave per comprendere il radicale rinnovamento dell’espressione letteraria che si impone in Italia all’inizio degli anni sessanta e che, nel suo caso, si traduce in un costante corpo a corpo con la lingua a partire da un’ossessione per l’imitazione, per la riscrittura – propria e altrui –, e per l’ibridazione, radicata nella convinzione che l’autorità creativa di chi legge sia “totale e insindacabile”. Manganelli, che per Niccolai sarà sempre un riferimento, nella prefazione a Harry’s Bar e altre poesie, nel 1971 scrive: “Come Carroll, la sciura Giulia sa che è tutta una faccenda di parole, e che le parole si scrivono, e scrivendole si possono incrociare, innestare, tagliare, topsy-turvare, tailare, addietrare, disavanzare”. Ne è un esempio King Clown, ambizioso e incompiuto progetto narrativo che la impegna tra il 1969 e il 1979, metaromanzo “di finissima intelligenza comica e tecnica”, che si compone di quattro capitoli che il volume di “Riga”, per la prima volta, permette di leggere integralmente. All’interno del primo, nel tentativo paradossale di offrire una definizione del “romanzo non scritto”, Niccolai afferma: “Rabelasiano o gongoristico, cambia pelle e risorge dalle ceneri, ada, arbasineggia, manganella e spatola. Kafka e tolstoja. L’importante è non averlo niccolaiato”. Eccola, la lingua che si deforma e si invera, concreta come una pennellata, ma anche ricercata e metaletteraria. “La signora clown” – così, nel 1981, Giuliani battezza Niccolai poetessa, che ha alle spalle Humpty Dumpty, la plaquette di poesia concreta, Greenwich, la raccolta nonsense che riprende il suo vocabolario da un atlante geografico e Substitution, altra raccolta di non-scrittura in versi –, è tra i “poeti postmoderni che giocano con il linguaggio che non si possono assolutamente trascurare”. Due anni prima Antonio Porta, nella celebre Poesia degli anni Settanta, parlava dell’opera di Niccolai come “uno dei risultati eccellenti della nostra cultura, senza mezzi termini”. Viene naturale, allora, a fronte di tutte queste attestazioni, domandarsi perché il suo nome sia stato per molto tempo messo tra parentesi, relegato ai margini. Il fatto di essere donna in un contesto culturale dominato dal patriarcato e infarcito di paternalismo non deve aver giocato a suo favore.

Per tutte queste ragioni il lavoro di scandaglio offerto dal numero 45 di “Riga”, ricchissimo e rigoroso, è estremamente importante: permette di riscoprire una figura e un’opera attraverso cui è possibile comprendere meglio alcune significative esperienze letterarie del secondo Novecento. E sarà un caso, Giulia Niccolai avrebbe detto una “sincronicità”, ma il numero 45 è anche quello della rivista milanese “Le ore”, che nel 1953, quando Niccolai non ha ancora compiuto vent’anni, accoglie e pubblica le sue prime fotografie, “un brioso ritratto di Carnevale di Monaco di Baviera”. Nel dicembre scorso è stato pubblicato tra “le Frontiere” Einaudi Un intenso sentimento di stupore, il volume, curato da Silvia Mazzucchelli, che racconta il suo apprendistato fotografico e riproduce fotografie scattate tra il 1954 e il 1963. Secondo Mazzucchelli, molti dei tratti espressivi di Niccolai scrittrice e poetessa sono già presenti nello sguardo della fotografa. Su tutti, l’ironia, “benevola, che si nutre di umana comprensione, non caustica, irridente, tranciante”, e lo spirito dilettante, quello, cioè, di chi “gioca seriamente”. La genesi del libro è una storia nella storia: dopo aver bruscamente chiuso il capitolo fotografico nel 1965, abbandonando macchine fotografiche, obiettivi e negativi all’interno di tre valigie, Niccolai, a distanza di quarant’anni, decide di recuperare il suo archivio con l’aiuto di Mazzucchelli. Segue un lavoro congiunto di riscoperta: alla curatrice il compito di ordinare gli scatti, scegliere le domande giuste, dare il la al ricordo; a Niccolai quello di osservare (e osservarsi) da una distanza non ricomponibile e raccontare. Così si scrivono le didascalie che accompagnano tutte le foto del volume.

A proposito di questa compresenza di immagini e testo, ma anche di passato e presente, Marco Belpoliti, nella Postfazione, scrive: “Qui le due Giulie sono come il doppiovetro di una finestra: guardiamo attraverso il vetro e non percepiamo che ci sono due vetri trasparenti”. E cosa vediamo? Le piccole città italiane ritratte tra il 1958 e il 1963, quando gira l’Italia in automobile per realizzare Borghi e città d’Italia; la New York che la accoglie per tre mesi nel 1954, giovane ventenne che sente “l’impellente necessità di capire la vita” e incornicia la street life di Harlem, Little Italy e Chinatown che le cammina davanti. Ma, anche, la Milano calda del boom economico: fotografie di svago e vacanza, tra l’Idroscalo e il Naviglio, realizzate nel 1960 a partire da un’idea di Giancarlo Fusca che avrebbe voluto farci un libro. E ancora New York, ma questa volta quella del sogno americano, dove si trasferisce per circa un anno tra il 1960 e il 1961. Lavora con il giornalista Furio Colombo, conosce Eleanor Roosevelt, Stanley Kubrick, segue la campagna elettorale di John Fitzgerald Kennedy, i raduni di Martin Luther King. Coglie, attraverso le fotografie, il fascino e l’incanto di quella stagione, che ancora non lascia presagire ciò che accadrà. Infine, dopo il ritorno in Italia, i ritratti della dolcevita romana: Federico Fellini, Alberto Moravia, Adele Cambria, Alberto Arbasino, Giulietta Masina. Di questo periodo racconta: “In estate mangiavamo spaghetti alle vongole in una trattoria su palafitte nella sabbia, sotto una tettoia di cannucce”. Una, due, tre, cento Giulia Niccolai: dietro l’obiettivo, dentro la storia.

virginia.giustetto92@gmail.com
V. Giustetto è dottore di ricerca in lingua e letteratura italiane