Il quadro della catastrofe
recensione di Andrea Casalegno
dal numero di marzo 2017
Franco Mariani e Mattia Lattanzi
FIRENZE 1966. L’ALLUVIONE
Risorgere dal fango 50 anni dopo: testimonianze, documenti, memorie di una città offesa
pp. 416, € 28
Giunti, Firenze 2016
Carlo Maggiorelli è un operaio di 53 anni, che lavora all’acquedotto comunale di Firenze. La notte dal 3 al 4 novembre 1966 Giuseppe Peruzzi, giornalista del quotidiano cittadino “La Nazione”, gli telefona dalla sede del giornale “per sapere se l’indomani ci sarebbero state difficoltà nell’erogazione dell’acqua”. “C’è una piena che fa paura” è la risposta. “Chissà se si potrà filtrare un’acqua così melmosa. Penso sarà difficile. Ora torno a vedere come va, mi richiami tra poco”. Qualche ora dopo risponde di nuovo: “È un disastro, qui si affoga tutti!”. Maggiorelli si allontana dal telefono, poi ritorna. “ È un grosso disastro e non so cosa fare”. Peruzzi lo invita a mettersi in salvo. “Non posso andare via! Sono solo e devo sorvegliare tutto l’impianto. Non posso, non posso. Ora la lascio, riattacco e torno a vedere se posso fare qualcosa”.
Maggiorelli è la prima vittima accertata dell’alluvione di Firenze. “Il suo corpo venne ritrovato due giorni dopo, completamente ricoperto di fango, in un cunicolo dell’impianto, mentre il figlio era fuori che aspettava notizie”. Le vittime ufficiali saranno diciassette in città e diciotto in provincia, anche se qualcuno ritiene che siano state di più. Duemila miliardi i danni. Completamente ricoperto di fango sarà anche gran parte del centro storico: una tragedia, e una rinascita, che possiamo seguire quasi minuto per minuto grazie alle testimonianze visive e narrative raccolte, per l’editore Giunti, da Franco Mariani e Mattia Lattanzi, due giornalisti che hanno dedicato a quell’evento una parte importante della loro vita professionale. Le immagini provengono dall’archivio personale di Franco Mariani e dall’associazione Firenze Promuove.
Assistiamo così all’attimo dello straripamento in Lungarno della Zecca Vecchia, la mattina del 4 novembre, osservato a pochi metri di distanza da due piccoli gruppi di fiorentini sotto l’ombrello. Vediamo poi Lungarno delle Grazie completamente sommerso, con l’acqua che ha raggiunto le porte delle case. L’acqua trascina 500.000 metri cubi di terriccio, ai quali si mescolerà presto la nafta degli impianti di riscaldamento custodita nelle cantine, lasciando una striscia oleosa sui muri quando la piena sarà rifluita. L’acqua circonda Santa Maria del Fiore, assedia la stazione centrale, si rovescia nei sottopassaggi, dilaga in Santa Maria Novella, dove danneggia il grande affresco prospettico di Paolo Uccello sul Diluvio. Alla sede di “La Nazione” raggiunge l’altezza di otto metri. Immergendovisi, alcuni giornalisti salveranno una famiglia che abita nel palazzo di fronte. A Santa Croce il livello della piena supera il limite raggiunto il 13 settembre 1557, quando perirono molti affreschi trecenteschi e la ristrutturazione venne intrapresa da Giorgio Vasari. Nel refettorio dell’antico convento l’acqua arriva ora a sei metri. In piazza Santa Croce, il 5 novembre si scorge il segno dell’acqua sul monumento a Dante, al quale Giacomo Leopardi aveva dedicato la sua seconda canzone. Il 6 novembre in piazza Santa Croce s’incastra nel fango anche la vettura che trasporta il presidente della Repubblica Giuseppe Saragat.
La cronaca visiva del disastro
La documentazione visiva è impressionante. A Ponte alle Grazie l’acqua è scesa, ma sfiora ancora il piano stradale, quasi completamente ricoperto dai tronchi trascinati dalla corrente. Ponte Vecchio visto da nord ha l’acqua vicina al colmo delle arcate; da sud è una visione apocalittica, con le botteghe sfondate dai tronchi, rimasti a decine incastrati nella struttura, che per fortuna ha retto. Una via è completamente ingombra di auto sommerse e rovesciate, in un’altra un natante della Polizia salva le persone rimaste bloccate al primo piano. Borgo San Jacopo è completamente ostruito da carcasse di auto e detriti, piazza San Lorenzo è allagata, in via Santa Maria i commercianti vendono al miglior offerente le poche derrate che hanno recuperato, in viale Fratelli Rosselli si muove un mezzo anfibio dei Vigili del Fuoco. La piena ha invaso chiese, conventi, archivi e la Biblioteca Nazionale. Le fotografie documentano i primi interventi di salvataggio e ripulitura, poi i primi passi del lunghissimo, certosino lavoro di restauro. Davanti a Palazzo Vecchio una grande tela, su un carrettino, ha al centro un enorme buco. Maria Luisa Bonelli, allora direttrice del Museo della Scienza, mostra davanti all’ingresso il cannocchiale con le lenti di Galileo. Una ragazza accovacciata comincia delicatamente a ripulire una tela completamente ricoperta di fango. Ai piedi del David di Michelangelo sette volontari trasportano un’enorme tela. Scandito dai titoli del quotidiano “La Nazione”, il testo documenta tutti gli aspetti del disastro, ma anche tutti gli interventi di salvataggio, compreso quello degli animali del giardino zoologico. Pompieri, forze dell’ordine, militari, semplici cittadini, le migliaia di volontari accorsi da tutta Italia e dall’estero, radioamatori, decisivi nella prima fase dei soccorsi, quando le linee telefoniche smettono di funzionare, nessuno è dimenticato.
Un posto di rilievo hanno le autorità cittadine. Il sindaco Piero Bargellini sprona incessantemente il governo e il Paese a non sottovalutare, come era avvenuto in un primo tempo, il quadro della catastrofe. Sarà invitato alla Casa Bianca da Lyndon Johnson. Poi i vicesindaci Luciano Bausi e Lelio Lagorio, il cardinale Ermenegildo Florit e il generale Ugo Centofanti. Un capitolo riporta molte testimonianze di coloro che è ormai consuetudine chiamare gli “angeli del fango”. Altri sono dedicati a ognuno dei corpi dello stato attivi nel soccorso, alla venuta di papa Paolo VI per la messa di Natale, nel cinquantesimo giorno dall’alluvione, agli interventi di star internazionali come Franco Zeffirelli e Richard Burton, al documentarista Folco Quilici, al cantastorie fiorentino Riccardo Marasco. Il libro è un mosaico, e sta al lettore ricostruire il quadro complessivo. Il suo pregio sta nei particolari, che oggi è facile dimenticare, e nelle numerosissime testimonianze.
Antonio Paolucci, già ministro per i Beni culturali, allora aveva 25 anni e venne incaricato di recuperare, al gabinetto fotografico della Soprintendenza, “le innumerevoli lastre spezzate e le fotografie impastate dal fango”. Paolucci ricorda che “l’attuale Opificio delle Pietre Dure è nato a seguito dell’alluvione”, per merito di Umberto Baldini, “che ha così duplicato l’Istituto centrale del Restauro di Roma”. Quell’intervento è stato fondamentale perché l’alluvione, spazzando via le botteghe artigiane di San Frediano, aveva fatto scomparire una realtà fondamentale per il restauro delle opere d’arte. Un restauro che non è ancora terminato, spiega Cristina Acidini, già soprintendente dell’Opificio e poi del Polo museale fiorentino. Restano, in particolare, da restaurare “numerose suppellettili liturgiche”. Nel tempo, tuttavia, le tecniche e le conoscenze hanno fatto grandi passi avanti in direzione di un restauro meno invasivo. Il case study più importante rimane il Cristo di Cimabue, per la gravità dei danni subiti e la difficoltà del recupero. Ma solo recentemente si è potuto intervenire sulla grande Ultima cena del Vasari, nel cenacolo di Santa Croce: “Quarant’anni fa si sarebbe fatta un’operazione del tutto diversa, e molto più pesante, con conseguenze per il supporto ligneo originale”.
casalegno.salvatorelli@gmail.com
A Casalegno è giornalista