Quante storie! Un remix fotografico
recensione di Tiziana Serena
dal numero di giugno 2018
David Bate
LA FOTOGRAFIA D’ARTE
ed. orig. 2015, trad. dall’inglese di Luca Bianco
pp. XVI-240, € 44
Einaudi, Torino 2018
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La critica di Clement Greenberg, sacerdote del modernismo pittorico, sull’eccesso di dettagli nell’opera di Edward Weston, grande virtuoso della fotografia, e gli strali di Charles Baudelaire sulla fotografia che nel 1859 giudicava troppo vicina alla natura e troppo lontana dall’immaginazione umana. L’arte del documento nella fotografia di strada e il mito del “fotografo dell’asfalto”, negli anni sessanta americani, e l’opera di Doug Rickard che preleva immagini da Google Street View per ridefinire il tema del documentario. La folla (1910) di Robert Demachy, uno dei più abili pittorialisti delle gomme bicromate, e la fotografia di Andreas Gursky, Giorno di maggio III (1998). Partiamo da qui per parlare del modus narrativo di questo volume. La continuità tracciata è quella fra il primo movimento artistico internazionale della fotografia di fine Ottocento e le soluzioni figurative del “neopittorialismo” nell’orbita dell’arte concettuale. Gursky è uno degli esponenti della Scuola di Düsseldorf, assieme ai coniugi Becher, a Candida Höfer, Thomas Ruff e Thomas Struth. Ed è proprio quest’ultimo a venire utilizzato in un altro assist per argomentare le relazioni fra l’impressionismo francese e il pittorialismo americano, soprattutto di Alfred Stieglitz con la sua predilezione moderna per la raffigurazione della città, benché colta sotto gli effetti atmosferici di pioggia o di neve. Per rendere questo collegamento più chiaro, il lettore viene invitato a osservare una fotografia di Struth (un altro fuori pista cronologico). È a colori. È in grande dimensioni. Appartiene alla serie sui maggiori musei d’arte e mostra uno spazio dell’Art Institute di Chicago. Al centro della sala troneggia il celebre dipinto alla maniera “fotografica” di Gustave Caillebotte, Rue de Paris, tempo piovoso (1877), attorniato da spettatori contemporanei. Sia nel grigio piovifero della New York di Stieglitz, esaltato dal bianco e nero della stampa, sia in quello della Parigi di Caillebotte, punteggiato da pochi toni di colore, una donna avanza verso lo spettatore. Entrambe hanno il busto leggermente ruotato di tre quarti verso destra. A ben guardare le due donne si assomigliano oppure è come si trattasse della stessa comparsa che recita in due scene teatrali distinte. È uno dei tanti cortocircuiti a cui ci conduce l’autore dove le immagini, ma non le loro storie, si toccano in un remix interpretativo.
La sostanza delle immagini
Più avanti il fotografo concettuale Jeff Wall viene messo in relazione a Henry Peach Robinson, celebre nell’età vittoriana per le sue manipolazioni fotografiche nonché autore del primo libro d’estetica fotografica (1869). Entrambi, sostiene Bate, ricostruiscono scene della vita quotidiana e le ricodificano attraverso il significato di cui è capace la fotografia e la sua composizione. Wall sarebbe poi da considerarsi l’interprete della contemporaneità, niente meno del “pittore della vita moderna” che Baudelaire aveva riconosciuto in Constantin Guys, il flâneur nel caleidoscopio della metropoli moderna capace di restituire uno sguardo distaccato mentre semplicemente fa esperienza della città. E su Wall così conclude: “La fotocamera va da sé, può rivestire il ruolo del flâneur e il fotografo diviene così il filosofo della vita moderna”.
Conclusioni come queste piaceranno a chi ama il montaggio anacronistico di immagini, qui presentate a coppie o terzine, in gran numero. Un montaggio gustoso e spericolato. L’azzardo che tenta Bate mettendo in relazione opere e autori lontani nella storia, uniti dalla narrazione su cosa renda e abbia reso “arte” la fotografia, è dialettico e a-storico, divertente e coinvolgente. Ma a conti fatti non sempre persuasivo. Anche se, sia chiaro, non è un libro canonico di storia della fotografia. Partendo dai temi e dalle immagini contemporanee l’autore getta un ponte verso il passato con l’obiettivo di farlo sentire non solo vicino, ma anche vivo e attivo nel nostro presente. Questo modo di accostare le opere risponde a una necessità didattica suggestiva per un pubblico avvertito, che tra l’altro molto mi ricorda il modo con cui i fotografi parlano solitamente delle fotografie.
Il secondo capitolo, La svolta del Pittorialismo, piglia un certo abbrivio quando l’autore descrive i pittorialismi a-sincroni e lontani dall’orizzonte occidentale in cui si sono sviluppati, così come nel caso di Harold Cazneaux in Australia, oppure quando si intrattiene sui fotografi che nella Russia di Rodčenko svilupparono tardivamente la critica sociale della pittura militante di Millet e Courbet. Ben congegnato appare un passo sul tema del genere, in cui si descrive l’opera pittorialista sul nudo femminile di Anne Brigman, asserendo che rappresenta uno sguardo di alterità interna al genere stesso. L’autrice prefigurerebbe poi l’uso del corpo come elemento della composizione visiva che se ne farà molto più tardi nella performance art.
Commissionato dalla Tate ed edito dalla Tate Publishing, il volume è una narrazione su fotografie e dipinti che mira a quel centro che l’autore definisce la “sostanza delle immagini”. Il testo prende le mosse da una constatazione che vuole sgomberare il campo da possibili equivoci sul tema della bellezza e dell’arte: la fotografia oggi è al centro dei discorsi dell’arte contemporanea come non mai. Come la fotografia abbia assunto questo ruolo è l’obiettivo del volume, mentre non lo è affatto il discutere della sua artisticità in quanto tale. In altre parole, quella serie di testi su arte e fotografia pubblicati nel corso dell’ultimo ventennio, David Campany (Arte e fotografia, 2006) e Charlotte Cotton (La fotografia come arte contemporanea, 2010) fra gli altri, dovranno vedersela con questo agguerrito Bate promosso dall’Einaudi (e con altri testi non ancora tradotti, fra cui Lucy Soutter, Why Art Photography?, 2013).
Dissimiglianza e somiglianza
Come Walter Benjamin negli anni trenta non si domandava più se la fotografia fosse arte, reputandola una vecchia questione messa a tacere dal modernismo dello stile documentario, ma “in che modo” l’arte fosse fotografia, così Bate ci ripropone la questione. Del resto, come la “fattografia” di Rodčenko nell’Unione Sovietica rivoluzionaria era informata dal senso di urgenza del presente (“Fotografate, e fatevi fotografare!”), così la scienza visiva democratica da allora condiziona la nostra “idea di fotografia” (tema a cui è dedicato il primo capitolo).
Il volume utilizza come puntelli le teorie di Jacques Rancière tratte da Il destino delle immagini (Pellegrini, 2007), sulle tre categorie che individuano le relazioni fra “il regime estetico dell’arte” e la “non-arte”, ovvero l’“immagine nuda”, “l’immagine ostensiva” e “l’immagine metaforica” si ritrovano in molti punti del volume per spiegare buona parte delle 93 illustrazioni. Azzeccata l’esplorazione del concetto di “dissimiglianza” di Rancière come obiettivo dell’arte contemporanea contrapposto a quello di “somiglianza”, concetto che tanto ha fatto discutere gli esegeti del modernismo e della fotografia. E finalmente questo accostamento dissimiglianza-somiglianza mi persuade del remix proposto da un autore che ben conosce la fotografia e del titolo stesso scelto per il volume. All’inizio non mi era tanto piaciuto perché pareva rimandare alla vexata quaestio della fotografia come arte (La photographie est-elle un art? domandava Robert de La Sizeranne a fine Ottocento in un notissimo libriccino): un tema a cui qualcuno ancora crede possa essere da trastullo.
tiziana.serena@unifi.it
T Serena insegna storia della fotografia all’Università di Firenze