Casualità e non-essere
di Yves Bonnefoy
dal numero aprile 2015
Il Premio internazionale Nonino 2015 è stato conferito a Yves Bonnefoy. Del poeta, saggista e critico d’arte nato a Tours nel 1923 è stato appena pubblicato in Francia un saggio dal titolo Poésie et photographie (pp. 76, € 16, Galilée, Paris 2014) testo anch’esso legato all’Italia, in quanto sviluppo di una lezione tenuta ad Aosta in occasione del conferimento del Premio Sapegno 2009. Proponiamo qui la traduzione italiana inedita di un passo della versione francese, pubblicata da Aragno nel 2010 (Yves Bonnefoy, Poésie et photographie. Lezioni Sapegno2009, Pubblicazioni della Fondazione Centro studi storico-letterari Natalino Sapegno, pp. 91, € 12, Aragno, Torino 2010).
Daguerre era stato pittore e componeva le sue inquadrature come avrebbe dipinto dei quadri, con l’intenzione di non lasciare nulla al caso, e in ogni caso moltiplicando i riferimenti alla tradizione artistica. Ma riflettiamo su ciò che, fatalmente, fa ora la sua apparizione. Questa tovaglia sul tavolo, questo vestito, saranno là, dentro l’immagine di nuovo tipo, con le loro pieghe reali, quelle decise dall’organizzazione casuale della loro materia, non dall’arte del pittore. Questa persona di cui si è fatto il ritratto è colta in una postura del corpo che neanch’essa è stata totalmente decisa dal fotografo, e lascia dunque apparire un elemento casuale che, nelle foto di gruppo (sempre più numerose da quando si cominceranno a scattare istantanee), andrà ad aggravare la casualità inerente agli altri corpi e alle loro reciproche posizioni; alla fine non apparirà nemmeno più desiderabile sottometterlo a simmetrie estranee all’esistenza come la si vive. Presto l’imprevisto attraverserà il campo dell’obiettivo nelle sembianze di un gatto, evento inedito in pittura, a dispetto della suggestione dell’Annunciazione di Lotto. Il caso è là, immancabilmente, a sviare lo spirito dal discorso curato della composizione, a mostrare che le cose esistono infine in quanto tali, in una materialità irriducibile allo spirito. In una parola, il caso non è più simulato, come accadeva talvolta, ma incontrato, addirittura subìto.
Ditemi se non colpisce, questa suggestione. Ma guardiamo con più attenzione un dagherrotipo, o una fotografia. E questo sasso che vi appare, sempre per caso, o il tessuto della giacca del tal notabile che ha voluto farsi ritrarre. Nell’immagine fotografica si può vedere la grana di questi materiali, nella quale appaiono macchie, embrioni di forme in numero virtualmente infinito. In pittura un artista, guidato dalla sua idea, intento a comporre, a istituire del senso, avrebbe controllato e perfino cancellato questi infimi dettagli nel lavoro di tocco del suo pennello; ma ecco che, tutto al contrario, in fotografia affiora un libero gioco di forme, e di forze, della materia, manifestamente estraneo a tutte le nostre leggi, indifferente ai nostri desideri: smentita profonda, abissale, che oppone ciò che è alle nostre pretese di una realtà superiore. Il caso si annida nel dettaglio di ciò che l’apparecchio fotografico percepisce, tanto quanto nella struttura dell’immagine che questo ha inquadrato. E da questa materia si protende verso una pretesa di forma per dire ciò che, presto, confesserà a se stesso Mallarmé, ovvero che non siamo altro che “vane forme della materia”: che, in realtà, non siamo.
Il che, oltre che pauroso, è anche nuovo. Perché il pensiero di questo non-essere esisteva già, certamente, la filosofia ne ha da sempre formulata l’ipotesi, le è anche accaduto di affermarlo come un fatto: ma non si trattava che di pensiero; mentre quest’evidenza s’inscrive ora nel seno di queste immagini visibili, la cui intenzione più radicale era quella di negarla. Ormai è dentro di noi, prossima al nostro sguardo, nel cuore delle nostre riflessioni. Si percepisca questa casualità nella toga dell’uomo di legge e, levando gli occhi sulla composizione in quanto tale, essa, questo prodotto dell’intelletto, apparirà ora un accidente tra gli altri nei grovigli del caso: l’immagine non avrà mostrato, nella sala che s’intravede, che una vana forma in più, priva di qualsiasi senso. Dello spettrale, senza alcun dubbio. I cassetti di questo mobile fotografato non si apriranno, questo vaso non è null’altro che la sua superficie, questo gruppo di persone… Comprendiamo il motivo per cui i primi fotografi cancellassero dalle loro opere i dettagli giudicati inutili: intuivano che sono pericolosi. Con l’invenzione di Daguerre il non-essere si è insinuato nel campo chiuso dell’immagine.
Nel 1842, appena tre anni dopo la dichiarazione di Arago, giusto il tempo necessario perché la notizia facesse il giro del globo, Edgar Poe, sempre all’avanguardia del pensiero del suo tempo, pubblica La maschera della morte rossa, nel quale, in un castello chiuso all’esterno affinché non vi penetri la peste, causa di morte, ancor più prova del nulla (un castello che è inoltre la scena di un ballo in maschera, patente figura di ciò che chiamo immagine), la peste tuttavia si manifesta sotto l’apparenza di una maschera, ovvero di una delle parti di tale composizione. Ciò che è stato estromesso s’insinua entro ciò che tentava di negarlo, ne smaschera la radicale illusione.
E con quali conseguenze, sin da subito! Poiché colui che guarda la fotografia come a queste condizioni gli è dato di farlo, che cosa diventa? Come ciascuno di noi non è altro che una rete d’immagini, lo è sin nel più intimo della sua coscienza di sé. E se una di queste immagini si decostruisce, non è forse evidente che tutte le altre si smaglieranno con essa? Colui che guarda si svuota di sé, letteralmente, quando si lascia andare a scrutare il casuale nell’immagine, non può più percepire in sé che questo vuoto, ovvero non la notte nel senso positivo e pieno dell’esperienza mistica, il cui nada è un incremento d’essere, ma le cose dell’esistere quotidiano ormai private di senso, divenute ognuna puro enigma, pura esteriorità risucchiata nel centro crollato dell’interno del qui. E dentro questo spazio del sé svuotato di senso, come potrà apparire a se stesso, se non come uno straniero, uno spettro senza alcun senso, alcuna volontà, alcun essere: un altro da sé che lo spossessa di sé?
Traduzione dal francese di Marco Maggi