Ars legendi per la civiltà delle immagini
recensione di Marco Maggi
dal numero di gennaio 2016
BRECHT E LA FOTOGRAFIA
a cura di Francesco Fiorentino e Valentina Valentini
pp. 227, € 18
Bulzoni editore, Roma 2015
Giacomo Daniele Fragapane
BRECHT, LA FOTOGRAFIA, LA GUERRA
pp. 108, € 12
Postmedia Books, Milano 2015
Dal cuore violato di Parigi o dalla waste land siriana, le immagini della guerra sono tornate a invadere il nostro quotidiano. Oggi più che mai avremmo bisogno di un Abicì della guerra, di un sillabario come quello che Bertolt Brecht pubblicò nel 1955 per insegnare – dopo che anche attraverso la fotografia e il cinema la popolazione mondiale era stata mobilitata al massacro più imponente della storia – “l’arte di leggere le immagini”, un’arte “difficile quanto leggere dei geroglifici”.
A quell’esercizio di decifrazione Brecht si era lungamente preparato: da un lato, a partire dal 1938, con l’Arbeitsjournal, documento che solo di recente ha suscitato l’attenzione nel contesto dell’interesse per il genere fototestuale; dall’altro, dalla prima rappresentazione della Vita di Galileo al Coronet Theater di Beverly Hills a Los Angeles nel 1947, con l’allestimento dei cosiddetti Modellbücher, album di fotografie intesi non soltanto come documentazione delle messe in scena “originali” di Brecht e del Berliner Ensemble, ma anche e soprattutto come stimolo all’esplorazione di soluzioni differenti da parte di altri registi e compagnie. Il volume Brecht e la fotografia, che raccoglie gli atti di un convegno tenutosi a Roma nel 2013, fornisce un’articolata analisi di questi materiali, insieme a confronti spesso illuminanti con il dadaismo berlinese, Kurt Tucholsky, Ernst Jünger (autore anch’egli di un sillabario fotografico: Die veränderte Zeit, 1933), Roland Barthes; una menzione a parte merita nel libro il saggio di Giacomo Daniele Fragapane dal titolo Qualcosa di vero, un’inedita lettura dell’Abicì della guerra in chiave di storia e teoria della fotografia.
Fotografia come teatro
Come chiarisce Francesco Fiorentino, germanista e comparatista che con la studiosa di teatro Valentina Valentini cura il volume, il denominatore comune delle multiformi interazioni brechtiane consiste in una “letterarizzazione della fotografia”, da intendersi da un lato come presupposizione della natura linguistica del mezzo, dall’altro come “trasferimento su altri media (il teatro, la fotografia) della modalità di ricezione richiesta dal medium della scrittura”. Ciò che è prescritto per l’arte drammatica, di introdurre “la nota a piè di pagina e il raffronto delle pagine”, vale per Brecht anche e a maggior ragione per la fotografia, la cui fruizione, se governata dall’ideologia dell’immediatezza della comunicazione visuale, produce istantanea commozione e altrettanto rapido (e talvolta programmato) oblio, come ha di recente confermato la labile scia di meteora tracciata, nella coscienza collettiva e soprattutto dei decisori politici, dalla fotografia del corpo esanime del piccolo profugo Aylan.
Che gli esiti della pratica intermediale teorizzata e praticata da Bertolt Brecht a stretto contatto con Walter Benjamin (che è un po’ il convitato di pietra del volume, non essendogli dedicato un contributo specifico, ma ricorrendo amplissimamente nei saggi raccolti) siano oggetto di valutazioni controverse sono questi stessi atti a confermarlo, nel libero e coinvolgente gioco di contrappunti che è uno tra i loro pregi: ad esempio, i Modellbücher, che Günther Heeg liquida come “devitalizzazione del vivente” della performance teatrale, rappresentano invece per Valentina Valentini un’attualissima sfida alle dicotomie tra autore e lettore e tra testo e immagine. Con più specifica attenzione alla fotografia, in un volumetto che sviluppa e amplia le considerazioni presentate nel convegno del 2013 (Brecht, la fotografia, la guerra), Giacomo Daniele Fragapane evidenzia le contraddizioni intrinseche al progetto brechtiano, prima fra tutte quella tra la proposta di un’“arte di leggere le immagini” e una concezione in fin dei conti anacronistica della fotografia, informata dal “paradigma ottocentesco dell’immagine meccanica come ‘specchio dotato di memoria’”, proprio mentre giungeva all’apogeo la concezione autoriale e costruttiva condensata nella metonimia dell’“occhio del fotografo”.
Ciononostante, l’appello di Brecht all’“ascolto della foto”, secondo la felice locuzione di Helga Finter, mantiene intatta la propria urgenza e attualità. Ci pare che a raccoglierlo entro le prospettive più ampie e promettenti sia ancora Francesco Fiorentino, quando preconizza, sulla scia di Brecht, un’“espansione e dilatazione dell’attività di lettura”: che è anche un argomento in contrasto con le tesi (di Vilém Flusser, in particolare) sulla fine dell’età della scrittura alfabetica. Imparare a leggere la scrittura per apprendere a leggere le immagini: proprio ora che la civiltà del libro appare in declino, proprio ora che la lettura dello scritto non è più “natura”, avremmo più che mai bisogno di un’ars legendi.
marco.maggi@usi.ch
M Maggi insegna letteratura e arti all’Università della Svizzera italiana