Herzog nel girone dei condannati, con terribile sobrietà
recensione di Laura Operti
dal numero di gennaio 2014
Un grande campo di croci senza nome, con un numero che le differenzia una dall’altra, un campo pieno di luce. Non può questa visione oggi non evocarne un’altra: il campo di croci con impressi non nomi, ma numeri, che ricordano i morti in mare nei naufragi di Lampedusa. Si apre il film documentario di Werner Herzog, Into the Abyss. A Tale of Death A Tale of Life, con l’immagine impressionante di questo cimitero, per i condannati a morte che hanno subito l’esecuzione capitale nelle prigioni di Huntsville, nella cittadina di Conroe, situata a venti miglia da Houston in Texas. Chi muore nel Mediterraneo, fuggendo da paesi in guerra, dalle persecuzioni politiche, dalla miseria, dove non c’è democrazia, è come un condannato a morte, senza che nessuna giuria, nessun processo lo abbia deciso, ma è come se l’avesse fatto.
Il film di Herzog, girato nel 2011, per esplicite e reiterate affermazioni del regista non vuole prendere posizione sul problema della pena di morte negli Stati Uniti, anche se Herzog, come europeo e tedesco, non ha dubbi sulla sua condanna. Il film è una ricerca, un’indagine. L’atteggiamento verso i condannati non è mai benevolo, ma pietoso. “Non sono costretto ad amarti, ma a rispettarti come persona” dice Herzog al condannato che intervista. “I film non sono una giustificazione per i reati commessi, è inoltre lampante che i crimini di cui si sono macchiate le persone nei miei film sono mostruosi, ma non sono mostri coloro che li hanno commessi”. Herzog incontra nel braccio della morte Michael Perry, che verrà ucciso dopo otto giorni per un triplice omicidio commesso dieci anni prima, e James Burkett, il ragazzo che era con lui quella notte, che sconta invece l’ergastolo. In carcere il regista intervista (sempre senza comparire) anche il padre di James, che sconta la pena di quarant’anni. Questi i tre personaggi “al di la delle sbarre”, che hanno visi quieti, tratti sofferenti, ma composti, molto tristi. Penso che non possa essere casuale questa scelta di sguardi miti e che Herzog voglia comunicarci il senso di rispetto che si deve avere verso ogni individuo, salvandogli la dignità, anche quando tutto sta per finire.
Il film è diviso in un prologo, cinque capitoli e un epilogo. La prima intervista è al cappellano Richard Lopez che incontra nel campo delle croci. Gli chiede: “Perché Dio ammette la pena capitale?”. Il cappellano risponde che non sa, ma parla di quando, guidando nei boschi incontra uno scoiattolo che gli attraversa la strada e fa di tutto per non ucciderlo e ci riesce, altri non fanno nulla e lo uccidono. E poi il cappellano piange. Molte lacrime sono versate in questo film, lacrime che si vogliono nascondere, strazianti. È come se questo racconto un po’ surreale ci introducesse nell’atmosfera di dolore che tutto pervade. Ora le parole e le immagini avranno l’accompagnamento di una intensa musica di Mark Degli Antoni. Questo film fatto solo di silenzi sarebbe intollerabile per lo spettatore. Michael Perry e James Burkett ancora adolescenti, sotto l’effetto di droga e alcol hanno ucciso una donna, il figlio e un amico del figlio per rubare una macchina, una Camaro rossa. A Burkett è stato inflitto l’ergastolo e non la pena di morte perché suo padre, intervenendo al processo, ha convinto i giudici che con il proprio comportamento, che lo ha sempre portato dentro e fuori dal carcere per tutta la vita, ha negativamente condizionato le scelte del figlio. Tutto viene detto con molta semplicità e sempre suscitando un senso di compassione. Ma più volte Herzog ci ricorda le tre vittime e l’abisso in cui quella notte tutto è precipitato nel male. E l’abisso più atroce è il luogo dove avviene l’esecuzione e il suo protocollo che ci viene descritto in tutti i particolari.
Una guardia carceraria racconta che dopo aver assistito a circa centotrenta morti, dopo l’ultima esecuzione, di una donna, la prima uccisa dallo stato del Texas, lascia il suo lavoro perdendo la pensione. Se ne va. Quando comincia il dialogo con Perry, e si intravedono dietro una porta le guardie carcerarie che sono due donne, Herzog fa le condoglianze al ragazzo perché suo padre è morto tredici giorni prima. Perry lo ringrazia e dice che lui e il padre molto presto si ricongiungeranno, perché a lui rimangono solo pochi giorni da vivere. Ogni parola suona come essenziale, non ci sono compiacimenti. Nel film troviamo inoltre interviste ai parenti e agli amici delle vittime, e a loro è dedicato il film. Prima di morire Perry dice di perdonare i suoi carnefici, in questo lugubre scambio di ruoli tra vittime e carnefici. Perry pluriassassino, ma anche vittima? Naturalmente Herzog non dà parole di commento.
Fanno da contrappunto alle interviste i filmati della polizia giudiziaria sui luoghi dei crimini, con tracce di sangue ovunque. Ma c’è anche la natura, il paesaggio intorno a questo inferno umano: alberi dietro i quali scorre il sole al tramonto, campi coltivati, prati, corsi d’acqua. E luce, quella luce che miracolosamente c’è anche nelle celle, con i muri dipinti di verde. Nelle ultime scene si vedono volare stormi di uccelli neri e poi sulla strada scorrere macchine, tante macchine, perché tutto continua. Questo documentario e altri quattro sullo stesso tema, Death Row, prodotti per il canale televisivo Investigation Discovery, sono esemplari di una responsabilità dell’autore che non è solo artistica, ma civile. Per questo si può dire che il film è al confine tra etica e metafisica. Etica per i valori di rispetto dell’essere umano che non vanno mai negati, perché di questi è fatta la civiltà. Un monito dunque molto sottile, non retorico, non imperioso ad agire per ripristinare un ordine arcaico che sembra sempre più dimenticato. Metafisica perché si parla della morte, di cui si può sapere, come Perry sa esattamente, come e quando avverrà, oppure non si sa nulla, tranne che è certa per tutti. E tutte le filosofie e le religioni dell’umanità hanno trovato nella morte il confine su cui l’intelletto o si spegne o si riaccende, usando categorie nuove e diverse. Credo che gli spettatori di questi film, oltre a essere profondamente turbati, non possano sottrarsi a riflessioni sulla morte.
Anche un altro grande della storia del cinema, Ermanno Olmi, nel suo libro L’apocalisse è un lieto fine. Storie della mia vita e del nostro futuro (pp. 263, € 18, Rizzoli, Milano 2013), ferma la sua attenzione su un caso di esecuzione capitale avvenuto proprio a Huntsville. Credo che se Olmi avesse usato il linguaggio cinematografico si sarebbe espresso con la “sobrietà”, pur terribile, di Herzog. Usando la pagina scritta, la sua denuncia nei confronti della condanna a morte di Marvin Wilson, afroamericano di cinquantaquattro anni, certificato dai medici al disotto della condizione che viene solitamente definita ritardo mentale, è più netta e radicale: “Il crimine di questa condanna, e di ogni altra condanna a morte, è l’ignominia che conferma la nostra idiozia quando la supponenza umana ritiene di poter giudicare secondo il proprio esclusivo concetto di giustizia” e, poche righe dopo, “L’orrore della morte di Marvin Wilson è una sconfitta per tutta l’umanità”.
Il film di Herzog Into the Abyss è stato presentato e ha ricevuto una menzione alla 29° edizione del TFF (Torino Film Festival), Death Row, all’anteprima della 30° edizione, presente l’autore. Al 66° Festival del film di Locarno, 2013, al regista è stato assegnato il Pardo d’Onore Swisscom, per la sua straordinaria ricerca di visioni, di apertura al possibile, di sguardo morale.