L’elegante racconto della nascita di una passione
recensione di Francesco Pettinari
Todd Haynes
CAROL
con Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson, Jake Lacy
Stati Uniti – Gran Bretagna 2015
Non la cronaca della vicenda sentimentale tra due donne, né tantomeno l’esibizione di atti sessuali, bensì quello che viene prima, il racconto della magia del loro incontro, della nascita del desiderio e della presa di coscienza della loro identità: questo è Carol, il nuovo film di Todd Haynes. Finalmente anche nelle nostre sale, atteso da mesi, da quando è stato presentato in anteprima mondiale all’ultima edizione del Festival di Cannes, accolto da ottime recensioni ed entrato nel palmarès grazie al premio per la migliore interpretazione femminile attribuito a Rooney Mara, una delle due attrici protagoniste – lasciando a mani vuote la straordinaria Cate Blanchett (la quale peraltro figura anche come produttore esecutivo), mentre sarebbe stato giusto premiarle entrambe -; non solo, come molti auspicavano, il film avrebbe potuto ottenere anche un premio più importante. Attualmente il film è protagonista della stagione degli Awards americani: per rimanere ai principali, il film ha ricevuto cinque nomination ai Golden Globes, rimanendo poi senza premi effettivi; ora resta da vedere cosa capiterà riguardo agli Oscar; inoltre, essendo una coproduzione angloamericana, il film ottiene candidature e premi anche in Europa: di questi giorni la notizia di ben nove nomination ai prossimi Bafta (British Academy of Film and Television Arts) e il premio come miglior regia e migliore fotografia ottenuti invece dalla US National Society of Film Critics.
Carol è tratto dal romanzo omonimo scritto da Patricia Highsmith – in realtà conosciuto anche con il titolo The Price of Salt – pubblicato nel 1953 (in Italia edito da Bompiani), lo stesso anno in cui si svolge la vicenda. È un’opera giovanile, anomala nella produzione dell’autrice americana, conosciuta molto di più per i suoi thriller psicologici – specie quelli con protagonista Tom Ripley -; molti registi – da Hithcock a Chabrol, da Anthony Minghella a Wim Wenders a Liliana Cavani – hanno trasposto le sue opere in cinema. L’evidente implicazione autobiografica e l’argomento trattato in Carol dovevano essere qualcosa di molto forte per la società americana dei Fifties, a tal punto che l’autrice lo ha pubblicato con lo pseudonimo di Claire Morgan. La sceneggiatura di Carol è stata scritta da Phyllis Nagy, autrice di testi teatrali, la quale è stata molto fedele alla precisione della scrittura del romanzo.
La magia di un incontro
Si è detto della magia di un incontro. Siamo a Manhattan, nei giorni che precedono il Natale dell’anno 1952. Carol Aird (Cate Blanchett) è una signora elegantissima, sposata ma in fase di divorzio, madre di una bambina, e si presenta avvolta in un visone color miele che non è solo il simbolo dello status sociale a cui appartiene, ma appare anche come il generatore di una luce, di una laccatura dorata che impregna tutte le sequenze – questo tanto per segnalare altre due eccellenze del film, i costumi di Sandy Powell e la fotografia di Edward Lachman. Therese Belivet (Rooney Mara) è una ragazza giovane, sta cercando di costruirsi un futuro, ha un fidanzato e un corteggiatore, ama fare fotografie, non ha ancora una piena consapevolezza di quello che vuole veramente, ma soprattutto è povera: questo è il contrasto maggiore che la contrappone a Carol e che, per contro, esalta maggiormente la fascinazione che prova per la donna. I loro sguardi si incontrano nel reparto giocattoli dei grandi magazzini dove Therese fa la commessa, e le due donne danno inizio a un dialogo con la naturalezza di due bambine che parlano di giocattoli, bambole e trenini elettrici.
Un paio di guanti dimenticati da Carol, e si avvia una conoscenza fatta di incontri dove non succede nulla – nulla di quello che un voyeurismo viziato possa aspettarsi: la scena di sesso arriverà, ma non per guastare la misura, l’equilibrio senza eccessi con cui Haynes ha confezionato tutto il film. I momenti passati insieme da Carol e Therese sono un collage di dettagli per raccontare il desiderio: traiettorie di sguardi, guance che arrossiscono, ciocche di capelli che si spostano in un certo modo, il modo di prendere e di fumare una sigaretta, e, su tutti, un gesto ripetuto che si rivela – icasticamente – come quello che caratterizza tutto il film: una mano sulla spalla – un contatto che trascende la strettoia delle convenzioni sociali.
In un’epoca in cui l’omosessualità è vista come una malattia da curare, Carol dovrà affrontare una vicenda legale che le toglierà l’affidamento della figlia. E c’è un viaggio, un viaggio in automobile, verso ovest, un viaggio che permetterà a Carol e Therese di conoscersi anche come corpi. A mettere fine alla loro fuga ci pensa un falso commesso viaggiatore che in realtà è un detective privato ingaggiato dal marito di Carol, la quale a quel punto abbandona Therese affidandola alle cure di Abby, l’amica lesbica. Non si vedono per mesi, poi sarà Carol, con una nuova coscienza di sé e con una nuova consapevolezza – ha divorziato, ha acquistato un appartamento in città e lavorerà come venditrice di mobili – a cercare Therese, la quale anche lei nel frattempo ha cambiato lavoro, è entrata nella redazione di un giornale, è ha un aspetto più curato, più sofisticato, a indicare che, almeno in parte, la distanza iniziale si è accorciata.
Con Carol Todd Haynes, classe 1961, confeziona un altro ottimo prodotto che prosegue la sua inclinazione per il melodramma al femminile, costruendo un’opera che va a formare un dittico con Lontano dal Paradiso, il film del 2002 che lo ha rivelato al grande pubblico, presentato quell’anno alla Mostra di Venezia dove Julianne Moore vinse la Coppa Volpi. Il film è ambientato nel 1957, ma rispetto a Carol, la protagonista, Cathy Whitaker, non ha possibilità di uscire dall’immobilismo della morsa in cui è presa, tra il marito segretamente omosessuale e la sua attrazione per il giardiniere di colore. In questo contesto, è da ricordare anche che nel 2011 Haynes ha realizzato una miniserie per HBO tratta da Mildred Pierce di James M. Cain, anche quella una vicenda melodrammatica in cui la protagonista era interpretata da un’altra icona del cinema contemporaneo, Kate Winslet. Carol è un film elegante, in totale sintonia con l’eleganza della protagonista: senza dubbio è questo l’elemento che crea un filtro, una distanza anche – si pensi a quante volte i volti di Carol e di Therese sono inquadrati dietro il vetro di un finestrino rigato dalla pioggia -, tra lo spettatore e la trama, ma si tratta di un pregio, di una corrispondenza tra intenti e risultato che è perfetta, a dispetto di chi pensa e si aspetta che l’emozione al cinema debba essere provocata dal ricatto emotivo o dalla captatio benevolentiae.
Sintomi di un tempo andato
Per finire, altre due considerazioni. I tempi sono notevolmente cambiati, ma, a prescindere dal percorso e dalle conquiste ottenute in nome della rivendicazione dei diritti, la società contemporanea – certo non solo quella americana – non appare molto cambiata: razzismo, puritanesimo, e soprattutto fobia patologica per tutto ciò che si qualifica come diversità sono fattori ancora ben radicati. Su un altro fronte, i gesti e la tastiera emotiva mostrati da questo film ricordano che la delicatezza, il pudore e il riserbo, vissuti come fattori che accompagnano l’innamoramento, si possono guardare ormai solo come sintomi epocali di un tempo trascorso per sempre. Carol è un film da premiare, ma non sbancherà i botteghini, come infatti sta accadendo negli Stati Uniti: non è affatto un blockbuster, è una prelibatezza per cinefili.
Parlare di melodramma con riferimento agli anni Cinquanta porta a pensare che un autore di riferimento per Haynes è senza dubbio Douglas Sirk, ma in Carol viene citato espressamente il melodramma culto per eccellenza: Viale del tramonto di Billy Wilder. Da un lato, la struttura di Carol è un esplicito richiamo a quella di quel film: la vicenda viene raccontata in un lungo flashback che simula il punto di vista di Therese fino a ricongiungere la scena iniziale con quella finale, attraverso un utilizzo virtuosistico delle ellissi temporali che separano una sequenza dall’altra. Il capolavoro di Wilder serve anche da chiave di lettura diegetica: un amico di Therese dichiara che continua a rivedere quel film perché vuole cogliere la corrispondenza esatta tra i gesti e le reazioni emotive dei protagonisti: questo significa vedere Carol. Il discorso metacinematografico si allarga ulteriormente alle attrici, al loro essere a tal punto immerse nell’aura del cinema di quegli anni da apparire come replicanti – nel senso migliore dell’espressione – di due miti del cinema hollywoodiano: a uno spettatore che non sia sprovvisto di memoria cinematografica Cate Blanchett non potrà non ricordare la bellezza algida e la gestualità di Lauren Bacall, mentre Rooney Mara fa rivivere l’ibrido di malizia e ingenuità proprio di Audrey Hepburn.
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F Pettinari è critico cinematografico