L’uomo sbagliato nel posto sbagliato
recensione di Grazia Paganelli
dal numero di novembre 2017
Sofia Coppola
L’INGANNO (THE BEGUILED)
con Colin Farrell, Nicole Kidman, Kirsten Dunst, Elle Fanning
Usa 2017
All’origine ci sono il romanzo, da poco tradotto in italiano dalla DeA Planeta Libri, L’inganno (A Painted Devil, 1966) di Thomas P. Cullinan e il film di Don Siegel La notte brava del soldato Jonathan (The Beguiled, 1971), stroncato e poi rivalutato fino a diventare titolo di culto. In quel caso c’era un giovane Clint Eastwood nei panni di un soldato nordista (e quindi un nemico) ferito e per questo ospitato e curato in una scuola per signorine della Virginia, letteralmente sconvolta dalla guerra civile. Dal romanzo parte anche Sofia Coppola per il suo L’inganno (The Beguiled) ripetendone la storia ma ribaltando il punto di vista del film, fino a fare un discorso femminile che s’innesta e scombina l’idea “machista” di Siegel. A mettere in parallelo i due film appaiono immediate le differenze e si fa ancora più chiaro il modello di Coppola di raffreddare la materia di Siegel, annullare le divagazioni temporali, che approfondivano il passato e le psicologie dei due personaggi più forti (il sergente Jonathan e la direttrice Miss Martha) e valorizzare l’economia di segni e informazioni.
Ben più di un remake
Non c’è passato e non c’è futuro nella tenuta lussureggiante e decadente adibita a scuola di buone maniere, e non c’è altrove oltre il cancello. Per quanto realista, la scenografia va verso una precisa stilizzazione allusiva, con il bosco che fa da contorno, al tempo stesso proteggendo e minacciando, portando novità, misteri, soluzioni, violenze. Oltre gli alberi la guerra impazza e manda i suoi macabri segnali di fumo. L’opposizione femminile-maschile si risolve, invece, fin da subito con lucidità e freddezza, in modo esattamente contrario rispetto all’allucinante ambientazione scelta per il film del ’71, ma il gioco, in entrambi i casi, è di quelli che portano all’esasperazione i suoi giocatori.
Sarebbe tuttavia errato interpretare L’inganno (che ha vinto la Palma d’oro per la regia al Festival di Cannes) come un semplice remake, dal momento che Sofia Coppola si accosta ai personaggi e alla vicenda con atteggiamento completamente diverso dal precedente, asciugando il discorso e usando le circostanze “storiche” come pretesto per una messa in scena in cui prevalgono isolamento, chiusura, linearità e calcolo. “La mia amica e scenografa Anne Ross mi aveva parlato del film La notte brava del soldato Jonathan di Don Siegel, che io non avevo mai visto ma che sapevo essere molto apprezzato” dichiara la regista. “L’ho guardato e la storia mi si è fissata in testa – la sua stranezza e le sue svolte inaspettate. Non avrei mai immaginato di rifare un film, ma ero curiosa e ho comprato il libro su cui si basava. Ho pensato, ‘perché non raccontare di nuovo la storia, ma dal punto di vista delle donne?’. In questo modo L’Inganno sarebbe stato una reinterpretazione; la premessa è vincente perché le dinamiche di potere tra uomini e donne sono universali”.
Essenziale e minimalista
Fin da Il giardino delle vergini suicide la regista ha dimostrato di prediligere i toni distaccati e le esecuzioni essenziali e minimaliste. E tutto sembra declinato in questo senso: la casa, i volti delle ragazze, le espressioni dell’insegnante Edwina e dell’imperturbabile Miss Martha. I gesti sono studiati e lenti, le parole sono una mediazione esasperata dei sentimenti, a loro volta visibilmente soffocati, i colori pallidi (dal bianco all’ocra) definiscono con forza l’idea di spettrale immobilità di queste donne, apparentemente indifese, in realtà determinate a sopravvivere con ogni mezzo. L’elemento nuovo sta nel genere che l’autrice adatta con eleganza, ma anche sfuggendo spesso ed elaborando ellissi capaci di tenere il film sempre in bilico tra thriller, horror, dramma. Il titolo originale esprime meglio l’equivoco che si crea fin dalla prima inquadratura: “beguiled” è colui che viene ingannato ma anche sedotto, ed è ciò che accade al soldato John. Si lascia sedurre per sedurre a sua volta, innescando un beffardo meccanismo ripetitivo, da cui uscirà malamente sconfitto.
Una volta varcata la soglia del collegio, ci si immerge in un microcosmo a sé stante e lontano da tutto. Il soldato John, però, è l’unica vittima di questo isolamento che solo per lui vuol dire prigionia, mentre per tutte le altre significa rifugio. “Quando McBurney appare per la prima volta, il mondo in cui sta per entrare sembra più morbido, rappresentato con tanti colori pastello. Ma trascorsi i primi momenti con le donne, l’atmosfera si fa più scura e minacciosa”, spiega il direttore della fotografia Philippe Le Sourd, che pare abbia accolto con favore la scelta di Coppola di girare in pellicola “per insistere sull’aspetto da vecchio film e in modo da mettere in risalto il linguaggio del corpo”. Di fatto il progetto di Coppola è quello di creare un microcosmo femminile delicatissimo, per osservare in ogni dettaglio le reazioni fisiche delle sette protagoniste, sapendo bene che ogni gesto è conseguenza di un pensiero o di un’intenzione e si riflette come un’ombra sull’intero racconto.
Materia incandescente
L’educazione femminile e le sue rigide convenzioni (come nel film Il giardino delle vergini suicide e, specularmente, in The Bling Ring), i giochi di potere, il significato e i modi della ribellione sulla pelle di donne diverse per età e temperamento. L’impulso sessuale come forma di evasione e la manipolazione del desiderio altrui come affermazione identitaria di libertà. Miss Martha e Edwina in quanto confinate in una dimensione di impotenza rispetto alla vita; le ragazze, al contrario, comandate da una spinta verso la vita prima impossibile. Se si aggiunge il principio di emulazione, si ha una materia incandescente che Coppola riesce a orchestrare e ad arricchire con l’uso di musiche e silenzi, sospensioni, pathos, suoni, dettagli di scenografia e di luce. Sempre sul limite di un’ambiguità perfettamente controllata, come l’ironia, che affiora in scintille di rara efficacia. In più c’è il fascino e il mistero del Sud degli Stati Uniti all’epoca della guerra civile e la contraddizione di come, a quel tempo, le donne venivano cresciute ed educate in relazione all’uomo, ad essere delicate e attraenti, delle buone padrone di casa. Ma poi gli uomini hanno indossato l’uniforme e se ne sono andati.
La guerra strepita da tre anni, ormai, ma le cinque giovani allieve sono spinte a vivere come nulla fosse. L’inizio sembra quello di una favola, con tutte le implicazioni che essa comporta, da un punto di vista puramente narrativo e da quello della costruzione psicologica dei personaggi e della percezione di essi. Nel bosco, la dodicenne Amy in cerca di funghi trova il nemico ferito e lo porta nella scuola. Un viaggio breve e ingannevole, il superamento di un confine che per lui non sarà più possibile riattraversare, proprio come nella migliore tradizione gotica. Da questo momento ogni cosa avrà sempre una duplice valenza e il film precipiterà in una dimensione di rigida cupezza.
Il cancello, quindi, ripetutamente inquadrato a tutto schermo, diventa il simbolo di questo cortocircuito, del contrasto inevitabile che si vive al suo interno, addomesticato o ignorato fino all’arrivo di un oggetto di disturbo. Il primo segnale sarà il viavai continuo di fanciulle sorridenti tra i corridoi, che entrano furtive nella stanza-prigione, proiettando ognuna sul ferito-prigioniero i propri desideri. Si lasciano manipolare dalle intenzioni del soldato, ma il controllo resta sempre nel loro sguardo, nella “sorellanza” che le unisce loro malgrado e si rinsalda nonostante la rivalità. L’uomo sbagliato nel posto sbagliato: mercenario al soldo dell’esercito nordista, sbarcato dall’Irlanda per combattere una guerra che non gli appartiene, e poi capitato in una casa di sole donne con frustrazioni da colmare o speranze che reclamano il loro spazio.
Impossibile cambiare la sorte di chi è destinato a morire. Riportato in vita e rimesso in piedi, John diventa puro oggetto di un desiderio irragionevole e sordo. La scena della prima cena a lume di candela lo dimostra con chiarezza. Attorno al tavolo le sette donne scambiano con l’uomo un fitto intreccio di sguardi e doppi sensi. Nulla è come sembra, anzi, si procede per dissimulazioni successive, performance intrise di doppi sensi, avvolte da funeree sensazioni. Se si prendono in esame l’oscurità dominante dell’ambiente e le ombre tremanti prodotte dalle candele, ci si rende conto del senso di oppressione verso cui il film sta velocemente scivolando. Il thriller prende forma proprio a questo punto e acquista spessore, arriva a sfiorare l’horror, con cliché sapientemente collocati: vuoti, neri invadenti, il tutto dentro una casa inquietante, che potrebbe sembrare disabitata.
paganelli@museocinema.it
G Paganelli è responsabile della programmazione del cinema Massimo di Torino