Bello, proustiano e incredibile James Bond
di Matteo Pollone
dal numero di dicembre 2015
Sam Mendes
SPECTRE
con Daniel Craig, Christoph Waltz, Léa Seydoux, Ralph Fiennes, Monica Bellucci,
Regno Unito 2015
All’inizio degli anni sessanta, a Ian Fleming la fine della guerra fredda sembrava imminente. Il personaggio che gli aveva regalato fama e successo, l’agente segreto James Bond, si era scontrato, in quattro dei sette romanzi scritti nel decennio precedente, con agenti dello Smersh, il servizio di controspionaggio dell’Unione Sovietica che improvvisamente rischiava di risultare datato. L’introduzione della Spectre, organizzazione non governativa dedita al crimine e al terrorismo, avviene in Operazione tuono (Thunderball, 1961), il romanzo nato sulle ceneri del trattamento omonimo scritto con Kevin McClory, Jack Whittingham, Ivar Bryce ed Ernest Cuneo in vista dell’esordio cinematografico di 007. Come è noto, le dispute legali tra McClory e Fleming obbligarono i produttori, Harry Saltzman e Albert Broccoli, a esordire con l’adattamento di Licenza di uccidere (Dr. No, 1958), ma l’idea vincente della Spectre venne conservata, creando così il primo capo di un vero e proprio filo conduttore che dal film del 1962 arriva a Una cascata di diamanti (Diamonds Are Forever, 1971), l’ultimo interpretato da Sean Connery per la Eon Productions e l’ultimo film in cui compare l’organizzazione. Il nome Spectre, e con esso quello del suo leader, Ernst Stavro Blofeld, richiama dunque, allo spettatore appassionato come a quello distratto, quella che si è soliti considerare la golden age del Bond cinematografico, coincidente, in larga parte, con le pellicole realizzate lungo il primo decennio.
Fin dalla scelta del titolo, quindi, il ventiquattresimo film ufficiale con protagonista James Bond (il quarto interpretato da Daniel Craig e il secondo diretto da Sam Mendes, entrambi inglesi), sembra guardare esplicitamente al passato, dopo tre opere contrassegnate da una forte discontinuità con il “canone”: Casino Royale (2006), Quantum of Solace (2008) e soprattutto Skyfall (2012). Quest’ultimo film, in particolare, ridefinisce profondamente il personaggio semplicemente dandogli spessore, andando oltre la silhouette di cui scriveva Kingsley Amis a proposito di 007, verso un’inedita complessità. Nel fare ciò, portava a compimento – e in qualche modo chiudeva – un percorso incominciato proprio con Casino Royale, primo e unico autentico reboot della saga. La morte di M (Judy Dench), la distruzione della casa di famiglia e l’esplosione della sede dell’Mi6 lasciavano Bond ancora attivo su un cumulo di macerie. È da quelle rovine che riparte, idealmente e letteralmente, Spectre.
La macrosequenza iniziale, come spesso accade, appare programmatica ed eloquente sotto più punti di vista. Sulle tracce di un uomo a Città del Messico, Bond entra in scena travestito da scheletro, in mezzo a una folla che festeggia il día de muertos. La dimensione funerea, luttuosa, del precedente film acquista qui un carattere carnevalesco, quasi festoso, al punto che la parte iniziale della sequenza, un long take di straordinaria maestria, può essere letto contemporaneamente come un richiamo a Missione Goldfinger (Goldfinger, 1964) e, con gusto cinefilo pressoché inedito nella filmografia bondiana, un omaggio a L’infernale Quinlan (Touch of Evil, 1958; non stupisce che tra gli autori dello script ci sia John Logan, sceneggiatore di RKO 281, docufiction sulla realizzazione di Quarto potere). Se l’era Brosnan terminava, nel 2002, con il ventesimo capitolo della saga, La morte può attendere (Die Another Day), film summa, citazionista, realizzato in occasione del quarantennale di Licenza di uccidere e in vista delle celebrazioni per i cinquant’anni dal primo romanzo di Fleming, l’era Craig si chiude (per quanto l’attore si sia rivelato, negli ultimi giorni, più aperto a un eventuale ritorno) con un’opera che da un lato continua ad interessarsi a Bond come personaggio complesso, dall’altro ritorna finalmente ad articolarsi come un racconto classicamente bondiano, al punto che verrebbe voglia di confrontare i suoi passaggi cruciali non solo con la costruzione dei film degli anni sessanta, ma anche con ciò che scriveva Umberto Eco nel celebre Le strutture narrative in Fleming. Non vi sono però solamente la scansione degli avvenimenti e le situazioni-tipo a cui il pubblico è abituato, ma anche una serie di luoghi topici che mirano ad aggiornare l’immaginario bondiano senza proporsi mai – al contrario di ciò che avveniva invece in La morte può attendere – come semplici ricalchi, autocitazioni, ammiccamenti. Inevitabilmente, sembra dimostrare Spectre, Bond è Bond in quanto genere prima che personaggio, il film-Bond è composto da una serie di invarianti che solo in rare occasioni si possono violare: l’operazione condotta da Mendes e dai suoi sceneggiatori in Skyfall funziona perché limitata a un film solo, che eloquentemente terminava tuttavia con la restaurazione di un vecchio ordine, con il volto rivolto nuovamente alla tradizione.
Il bello di Spectre, dunque, sta proprio nel suo gettare la maschera, come fa Bond all’inizio del film. Una maschera che aveva causato numerosi equivoci, non ultimo quello di uno 007 d’autore, prima con il coinvolgimento di Paul Haggis per le sceneggiature di Casino Royale e Quantum of Solace, poi di Sam Mendes come regista di Skyfall. La questione viene esplicitamente e programmaticamente ribaltata: la maggiore coesione tra gli episodi (che in Spectre diventa quasi forzatura), la concentrazione nei confronti del rovello del protagonista, l’attenzione a temi e questioni attuali nella costruzione delle minacce allo scenario geopolitico arricchiscono certo il modello, ormai difficile da rinverdire, ma hanno, in ultima analisi, la funzione di un mascheramento. In Spectre, Mendes posiziona il suo protagonista in più di un’occasione di fronte a specchi e superfici riflettenti. Per quando sia ancora alla ricerca di frammenti di verità che lo coinvolgono direttamente, Bond finalmente si guarda e si riconosce. Non è un caso che a una di queste immagini speculari si sovrapponga proprio il volto di Blofeld, personaggio con cui gli autori si prendono qualche libertà: figlio di Hannes Oberhauser, l’uomo che ricoprì la funzione di padre putativo per un James appena rimasto orfano, è di fatto il fratellastro di Bond, geloso delle attenzioni del genitore per il nuovo arrivato e di conseguenza parricida e ossessionato dal rivale. L’operazione di rebooting, quindi, non è limitata al solo Casino Royale, ma attraversa la tetralogia e trova piena realizzazione con questo quarto capitolo: se il film del 2006 era l’anno uno di 007, qui ci si trova di fronte all’anno uno di Blofeld, della Spectre, di un universo narrativo ritrovato che sovrappone definitivamente un’inverosimile organizzazione criminale a minacce relativamente verosimili.
La reale o metaforica ramificazione familiare di un personaggio, come detto, sostanzialmente monodimensionale, è novità del Bond di Craig. La donna amata sinceramente e profondamente che muore tragicamente nel primo film; la figura materna e un altro mostruoso fratellastro, il Silva di Javier Bardem in Skyfall anticipano questa ennesima rivelazione di carattere biografico. Ma tutto questo non può che rivelarsi un détour di fronte all’esigenza di riportare finalmente in scenala formula più classica del film di 007. È nell’ammiccamento proustiano nel nome della Bond girl interpretata da Léa Seydoux, Madeleine Swann, che appare ancora una volta chiaro l’intento degli autori: l’immergersi nel passato del personaggio diventa quindi la chiave per tornare al passato della saga. Spectre, girato in pellicola dopo il digitale di Skyfall, è esplicitamente costruito come un viaggio a ritroso nel tempo, un percorso che coinvolge i protagonisti della vicenda narrata, connotati da abbigliamento, dettagli e ambienti sempre più vintage.
Certamente lo stile di Mendes tende spesso all’asciuttezza e alla semplificazione estrema, ma il film si abbandona a eccessi barocchi traboccanti d’ironia, come l’inseguimento per una Roma notturna che ricorda molto da vicino la Venezia di Moonraker (1979), dimostrazione di un modello prestabilito che riprende il sopravvento sulla presunta visione autoriale del personaggio: così, il volto di Blofeld alla fine del film sarà identico a quello di Donald Pleasence in Si vive solo due volte (You Only Live Twice, 1967), la scena della tortura con il trapano sarà una variazione miniaturizzata del raggio laser di Goldfinger, e farà la sua comparsa persino il gatto bianco, inscindibile dalla figura del vilain bondiano. In conclusione, se i tre film precedenti della saga avevano dato forma a un Bond maggiormente credibile, alla prese con un universo verosimile, il merito di Spectre è quello di tornare a un mondo inverosimile, un mondo che non è il nostro. Solo così 007 può tornare a essere incredibile.
matteo.pollone@unito.it
M Pollone insegna storia delle teoriche del cinema all’Università di Genova