Un’ossessione onnivora
di Mariapaola Pierini
dal numero di ottobre 2018
Orson Welles
THE OTHER SIDE OF THE WIND
con John Huston, Peter Bogdanovich, Oja Kodar, Robert Random, Susan Strasberg
Usa 2018
“Un film dentro a un film, dentro a un altro film. È una di quelle vicende senza fine”: così Orson Welles descrive The Other Side of the Wind in un’intervista del 1982. Presentato in anteprima all’ultima Mostra Internazionale del Cinema di Venezia (in sala e su Netflix a partire dal 2 novembre), il film e la sua travagliata vicenda produttiva si riflettono in maniera speculare: girato tra il 1970 e il 1976, The Other Side of the Wind è un lavoro incompiuto, che racconta di un grande regista che non riesce a portare a termine il proprio film. Ma una vicenda senza fine è l’opera stessa di Welles, a più di trent’anni dalla sua morte. Manomessa, stravolta, incompiuta, tradita, perduta e ritrovata, la sua filmografia è segnata da una condizione di instabilità e di incertezza, è un cantiere ancora aperto, o un enorme sito archeologico, da cui emergono di tanto in tanto alcuni preziosi reperti. In questa storia che non si chiude mai, gli ultimi anni sono stati particolarmente ricchi di colpi di scena. Il recente e inaspettato ritrovamento (e il restauro) di un importante tassello mancante, Too Much Johnson del 1938, è stato salutato come un evento eccezionale. Una copia del film che lo stesso Welles diceva essere andato irrimediabilmente perduto nell’incendio della sua casa in Spagna si trovava negli scantinati di Cinemazero di Pordenone. Dal 2013 finalmente possiamo vedere (se pur in una versione incompleta) la commedia in stile slapstick girata per essere proiettata durante uno spettacolo del Mercury Theatre. E se Too Much Johnson rappresenta i prodromi di una carriera, The Other Side of the Wind ne è il possibile epilogo, il grande film che avrebbe dovuto accompagnare il rientro di Welles negli Stati Uniti e che il regista purtroppo non riuscì mai a portare a compimento. Un’altra opera leggendaria, di cui circolavano alcuni frammenti e su cui aleggiava, giustamente, la fama di film maledetto e straordinario.
Una sarabanda di immagini
Prima della proiezione la sala veneziana è percorsa da un’attesa trepidante e da una leggera circospezione. Infatti quello che scorrerà sullo schermo non è il film di Welles bensì una versione postuma realizzata grazie allo sforzo economico di quella che oggi è la più potente piattaforma streaming, Netflix. Proprio nel mezzo delle polemiche (Cannes che non ammette in concorso film prodotti dalle piattaforme digitali, mentre Venezia premia le produzioni a marchio Netflix) e delle diatribe sul futuro del cinema in sala, il grande regista ritorna, e ritorna a dispetto e in virtù dei rapidi mutamenti dello scenario mediale. E grazie alla tenacia e alla devozione di Peter Bogdanovich e dei produttori Frank Marshall e Filip Jan Rymsza che, dopo quarant’anni e una complessa vicenda di diritti, hanno reso finalmente possibile l’uscita di The Other Side of the Wind. Le oltre cento bobine di girato sono state restaurate e poi montate da Bob Murawski e musicate da Michel Legrand, che hanno messo insieme due ore di film attenendosi alla sceneggiatura (pubblicata nel 2005) e sotto la supervisione di Bogdanovich – che alle riprese aveva partecipato in veste di attore ed era grande amico di Welles. Si percepisce anche un po’ di diffidenza per gli aspetti filologici dell’operazione, come spesso accade in questi casi (per esempio, i documenti sul film del fondo Welles conservati al Museo Nazionale del Cinema di Torino non sono consultati) ma, all’abbassarsi delle luci, la forza delle immagini di Welles ha il sopravvento su tutto il resto.
Difficile restituire in parole un film che è innanzitutto un ragionamento sul cinema e su Hollywood, una sarabanda di immagini di formati diversi (16mm, 35mm, bianco e nero e colore), un accavallarsi e intersecarsi di punti di vista, una frenetica ricostruzione dell’ultimo giorno di vita di Jake Hannaford, il grande regista hollywoodiano interpretato da John Huston. La trama è semplice, il film estremamente complesso. Braccato da giornalisti, critici, fotografi, il regista rilascia dichiarazioni, mostra frammenti del suo film, discute, beve whisky e fuma il sigaro. Lui, maestro del cinema, gigante dai modi rudi e dalla risata irresistibile, è continuamente osservato da voraci macchine da presa, “catturato” da ogni sorta di dispositivo, violato in quella che oggi chiamiamo privacy. È assalito da domande impertinenti, circondato da una corte di persone tra cui si distinguono lo stesso Bogdanovich nei panni del regista cinefilo Otterlake, Susan Strasberg in quelli di una critica che pare Pauline Kael, Norman Foster, Mercedes McCambridge, Lilli Palmer; nel ruolo di se stessi si intravedono, tra gli altri, Paul Mazursky, Dennis Hopper, Claude Chabrol, Henry Jaglom.
Un testamento
Il film che Hannaford sta realizzando non può essere concluso perché l’attore principale, John Dale (interpretato da Bob Random) ha abbandonato il set e la produzione sta cercando goffamente di risolvere la situazione. Le sequenze che il regista mostra ai convitati durante quella che sarà la sua ultima festa di compleanno sono dunque il film nel film: immagini distantissime da ciò che ci aspetteremmo, dallo stile di Welles come da quello di Huston. Quello di Hannaford è un film dai marcati e talvolta stridenti tratti di modernità, anche perché è la parodia di ciò che all’altezza degli anni settanta veniva etichettato come moderno. Le immagini a colori e lo stile richiamano, nemmeno troppo velatamente, gli spazi, i silenzi e i deserti di Antonioni (citato peraltro in un dialogo), in cui si muove, muta e nuda, Oja Kodar. L’ultima compagna di Welles è una delle presenze più conturbanti ed enigmatiche di un’opera che, tra le molte sorprese, rivela anche una forte e dolorosa tensione erotica – quasi del tutto assente nella filmografia wellesiana – proprio per quel corpo statuario e quasi alieno. E sono infatti l’erotismo che vira verso la pornografia (la scena ambientata nei bagni di un locale sembra un porno arty degli anni settanta), i riferimenti all’omosessualità, ad aprire uno squarcio nell’analisi impietosa ma ironica, lucida e visionaria, che Welles compie sulla mitologia e sulla fine del cinema, sull’ossessione onnivora che muove la macchina da presa, e sulla potenza, e sull’impotenza, delle immagini. Un’allucinata sequenza nel finale, in cui un gigantesco fallo gonfiabile si affloscia sotto gli occhi impassibili di Oja, suggerisce, in modo piuttosto evidente, un’analogia con il destino di un vecchio regista, con il suo vigore creativo e sessuale ormai in declino.
Forse è fin troppo ovvio dire che si tratta di un film testamentario. Non sappiamo se lo fosse nelle intenzioni, ma lo è ai nostri occhi, anche perché negli ultimi anni della sua vita Welles non riuscì a portare a compimento né questo né gli altri progetti a cui stava lavorando. Ma The Other Side of the Wind è davvero un film che chiude idealmente una carriera e un cerchio, perché è intriso di morte, esattamente come lo era Quarto potere. Sono passati trent’anni dal folgorante esordio hollywoodiano: trent’anni di cinema e di molte avventure, di esìli e di ricerche di denaro, di grandi progetti incompiuti (pensiamo al Don Chisciotte) e di opere manomesse e martoriate (L’orgoglio degli Amberson, L’infernale Quinlan…). Welles, non solo attraverso Hannaford – che sarebbe riduttivo interpretare come suo alter ego, perché di mezzo c’è John Huston, e tutto quello che nella sua presenza riverbera – ma attraverso la folla di personaggi, nel bianco e nero e nel colore, nella macchina a mano, nei primi piani, nell’alternanza di stili e formati, realizza un’opera che muove dall’autobiografia, dalla (auto)parodia e vira verso la speculazione teorica.
Welles è stato capace di assorbire, campionare, emulare stili visivi e poetiche altrui, trattando le immagini con la sapienza e il distacco di chi di immagini si è nutrito, di chi vissuto dentro la modernità e ha saputo farci i conti. I richiami a Bertolucci, Antonioni e Godard e lo stesso topos del film nel film sono trattati con la levità e l’ironia di chi la sa lunga, di chi può permettersi di guardare al passato e allo stesso tempo vaticinare sul futuro. D’altronde, fin dalla giovinezza, Welles ha sempre avuto una decisa propensione riflessiva e autoriflessiva. Se da ragazzo si interrogava su cosa portasse il pubblico a prediligere il cinema al teatro, da vecchio sembra chiedersi che cosa ne sia stato e ne sarà di questa magnifica invenzione. Tutti hanno una macchina da presa in mano, tutti producono immagini, tutti rubano la vita filmandola. Nell’ultima sequenza, il film di Hannaford viene proiettato in un drive in con le macchine che a poco a poco se ne vanno mentre la pellicola scorre da sola, senza più spettatori: è la fine di The Other Side of the Wind, forse è la fine del cinema per come l’abbiamo conosciuto, e pure la fine della vita. Come dice la voce over, giocando sull’ambivalenza del verbo to shoot, “riprendi posti magnifici e gente bellissima, tutti questi ragazzi e ragazze… you shoot’em dead”. Li filmi e li uccidi.
mariapaola.pierini@unito.it
M Pierini insegna storia e critica del cinema all’Università di Torino