Mickey 17 di Bong Joon-ho

Copie difformi

Mickey 17 di Bong Joon-ho
con Robert Pattinson, Naomi Ackie, Steven Yeun, Toni Collette, Mark Ruffalo, Usa-Uk, 2025

di Dario Tomasi

“L’unico modo per essere felici è di sentirci tutti uguali” afferma il comandante dei pompieri prima di effettuare l’ennesimo rogo di libri, di quei libri la cui lettura ci rende diversi, nel distopico film di François Truffaut, Fahrenheit 451 (1966), tratto dall’omonimo romanzo di Ray Bradbury (1953). Una frase che potremmo trovare in esergo a Mickey 17, l’ultimo lavoro del regista sudcoreano Bong Joon-ho. Girato fra l’agosto e il dicembre del 2022 ma uscito nelle sale, a causa del lungo sciopero degli sceneggiatori e degli attori hollywoodiani, solo nei mesi di febbraio e marzo 2025, Mickey 17 è l’ottavo film di Bong e il primo dopo il grande successo del premio Oscar Parasite (2019). Le sue riprese, la travagliata postproduzione e l’attesa per l’uscita corrono di fatto parallele alla candidatura, alla campagna elettorale e al trionfo nelle presidenziali americane di Donald Trump. Non sono pochi i riferimenti del film alla realtà politica che segna gli Stati Uniti di questi ultimi anni, a partire dal personaggio di Kenneth Marshall, l’uomo che guida la spedizione verso il pianeta Niflheim e il suo successivo tentativo di colonizzazione al fine di “creare un mondo esclusivamente bianco per una razza umana pura”.

Marshall è un politico populista e di destra, reduce da una pesante sconfitta elettorale, come quella di Trump nel 2020, che cerca riscatto al suo narcisismo ferito con un’impresa intergalattica, potremmo dire alla Elon Musk e alla sua ossessione di colonizzare Marte, spalleggiato da un gruppo di fedelissimi nazionalisti bianchi e criptofascisti che più che un’organizzazione politica ricorda una sorta di fanatica congrega religiosa e i cui membri indossano un cappellino da baseball rosso identico a quello dei supporter di Trump. Nel corso della storia, il personaggio di Marshall, molto più presente di quanto non lo sia nel romanzo di Edward Ashton, Mickey 7 (ed. orig. 2022, trad. dall’inglese di Stefano Ternavasio, pp. 324, € 16,90, Fanucci, Roma 2025), all’origine del film, si lascia andare a una serie di comizi rivolti ai suoi adepti, i cui discorsi paiono una sorta di antologia delle prospettive di estrema destra sbandierate nell’ultima campagna elettorale americana. Comizi e discorsi che, inoltre, si danno nella forma di un vero e proprio spettacolo, agiograficamente ripresi da una videocamera manovrata dal “sacerdote” della “setta”, e in cui lo stesso Marshall smette a volte di parlare per mettersi a cantare, come nei tanti show più o meno improvvisati dal presidente americano. Se poi è vero che il ghiaccio del pianeta colonizzato Niflheim rimanda ai paesaggi di un precedente film fantascientifico di Bong, Snowpiercer (2013), è vero anche che ricorda quella Groenlandia che è oggi nelle mire imperialistiche di Trump.

Anche se Bong gioca un po’ a nascondersi, quando ad esempio, afferma di essersi ispirato per il suo personaggio, che ha voluto nello stesso tempo “stupido” e “cattivo”, al presidente sudcoreano Yoon Suk-yeol, recentemente protagonista di un clamoroso auto-colpo di Stato che ha gettato il suo paese in una crisi istituzionale senza precedenti, i riferimenti di Marshall a Trump appaiono davvero troppo evidenti per non essere colti.

Con questo personaggio, Bong prosegue la grottesca rappresentazione delle diverse forme del potere che ne hanno segnato la filmografia: dagli imbelli agenti di polizia nella Corea del Sud dittatoriale degli anni ottanta di Memorie di un assassino (2003), al ridicolo agire delle autorità di The Host (2006) che si preoccupano più di mettere in quarantena la popolazione che di distruggere il mostro, al cinismo delle multinazionali e ai loro intrighi sul cibo geneticamente modificato di Okja (2017). Quella di Bong è, e lo è in modo particolare in quest’ultimo film, una rappresentazione del potere che nella sua dimensione caricaturale si avvicina a quella di Stanley Kubrick, come è, un esempio fra i tanti, ne Il dottor Stranamore (1964). Del resto, non si può non pensare alla filmografia di Bong, alla sua riuscita fusione fra esigenze autoriali, originalità stilistica e politiche d’intrattenimento, come a qualcosa che cerca di avvicinarsi a quello che fu il cinema di Kubrick, a cui, in Mickey 17, rimandano anche le scene dei pasti: quelli nella mensa (il cui cibo sintetico è simile a quello degli astronauti di 2001: Odissea nello spazio, 1968) e quello di Mickey 17 nell’appartamento di Marshall (assai vicino, per il modo in cui il protagonista è soggiogato, a quello di Alex nella casa dell’uomo deciso a vendicare lo stupro della moglie in Arancia meccanica, 1971).

A questa rappresentazione grottesca e terribilmente crudele del potere, i cui rappresentanti sembrano usciti da un fumetto, concorre anche la moglie di Marshall, Yilfa (un’altra invenzione del film, assente nel romanzo), con la sua ossessione per le salse che ritiene la “vera cartina al tornasole della società” e che cerca di frenare il marito quando questi vorrebbe uccidere con un colpo di pistola alla tempia Mickey 17, solo perché, così facendo, macchierebbe di sangue il suo prezioso tappeto persiano. Secondo le parole dello stesso Bong, anche il personaggio di Yilfa, del resto, rimanderebbe in modo caricaturale a figure ben reali come quelle di Imelda Marcos ed Elena Ceaușescu, note, oltre che per la devastante influenza politica, anche per la loro comune passione verso le scarpe (qui sostituite dalle salse).

Al mondo del potere, Bong contrappone quello di coloro che di questo potere sono vittime, in particolare attraverso il personaggio di Mickey 17, ultimo dei tanti protagonisti “basso-mimetici”, “senza qualità”, privi di quei tratti che potrebbero farli emergere nella società, di cui è pieno zeppo il cinema di Bong. Sin dalla prima scena del film, in cui lo si vede sprofondato in un ghiacciaio, abbandonato a sé stesso dall’amico, minacciato dagli striscianti e presumibilmente prossimo alla morte, Mickey 17 è segnato dalla sua dimensione di “personaggio debole”, di qualcuno che “conta poco o niente” e verso cui gli altri possono manifestare un’assoluta indifferenza, come succede – in forme che rimandano allo slapstick – quando il suo corpo rigenerato, fuoriuscendo dalla stampante 3D, cade più di una volta malamente a terra mentre i tecnici intorno a lui fanno altro, o quando la sua mano mozzata vola nello spazio alle spalle di viaggiatori che, impegnati nelle loro conversazioni, neanche se ne accorgono. Di fatto, nella sua qualità di “sacrificabile”, ovvero di qualcuno che può anche morire perché il suo corpo e i suoi ricordi saranno riprodotti, Mickey 17 è un “diverso” – è l’unico “sacrificabile” della missione –, e in quanto tale un reietto, un paria, qualcuno da tenere ai margini. Rappresenta gli ultimi ingranaggi della società, quelli che possono essere facilmente sostituiti – è sufficiente “fotocopiarli” –, quelli che per vivere sono costretti a svolgere lavori che nessuno si sognerebbe di fare, spesso ad alto rischio, tanto da poterne causare la morte – e a quante morti sul lavoro si assiste nel film? Un “fucking looser” lo chiama il suo doppio, stampato per errore, Mickey 18. Un “multiplo” fisicamente identico, ma all’opposto per ciò che riguarda il carattere: tanto l’uno è buono, remissivo, sensibile ed esitante, tanto l’altro è cattivo, ribelle, freddo e risoluto, al punto, prima, di impugnare una pistola e attentare senza riuscirci alla vita di Marshall, e, poi, di farlo finalmente esplodere, sacrificando però sé stesso, come un vero kamikaze. Mickey 18 è l’emergere della frustrazione e della rabbia repressa di Mickey 17, di un lavoratore sfruttato, come lo stesso protagonista ricorda, “senza assicurazione, sindacato, né pensione”.

Capovolgendo, non certo per primo, uno degli assunti dominanti il cinema di fantascienza classico, nel film il nemico non arriva dall’esterno, non sono i quasi “adorabili” striscianti – che proseguono la galleria delle creature mostruose dei film di Bong: dal mutante di The Host al super-maiale Okja – a voler la fine dell’uomo, come dimostra il fatto che sono proprio loro a salvare la vita di Mickey 17, manifestando nei suoi confronti una partecipazione affettiva ben diversa dall’indifferenza degli umani e dallo sprezzo di Marshall e Yilfa. Al contrario, il nemico è dentro ed è, come sempre nel cinema del regista, rappresentato dal potere. Un potere che tenta di affermarsi sull’individuo arrivando ad appropriarsi della sua vita identitaria, rubandogliela ogni volta che gli fa comodo e riproducendola poi all’infinito (o almeno per 17 volte, contro le 7 del romanzo originale). Ma questo controllo assoluto è destinato al fallimento, non solo perché il “rivoluzionario” e terrorista Mickey 18 – già di per sé un doppio oppositivo di Mickey 17, che ne mina così l’unità identitaria – decapiterà con il suo gesto suicida il potere, ma anche perché il sogno di un uomo perfettamente riproducibile (quasi come la benjaminiana opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica) dovrà scontrarsi con l’impossibilità di azzerare le differenze fra gli individui, come testimoniano le parole dello stesso Mickey 17 che, parlando delle sue precedenti versioni, così come le ricorda la fidanzata Nasha, compassionevole controcampo di Marshall, afferma che “Mickey 3 era lamentoso e appiccicaticcio, 5 era indeciso e 8 fastidioso e abbastanza stupido”. Ciascuno, in sostanza, una copia difforme dell’altro.

dario.tomasi@unito.it
D. Tomasi insegna storia del cinema all’Università di Torino