La solitudine di un uomo buono
recensione di Francesco Pettinari
Matteo Garrone
DOGMAN
con Marcello Fonte, Edoardo Pesce, Nunzia Schiano, Adamo Dionisi, Francesco Acquaroli
Italia 2018
Roma, 18 febbraio 1988, via della Magliana 253 L: Pietro De Negri, titolare di un piccolo salone di toelettatura per cani, uccide e infierisce brutalmente sul corpo di Giancarlo Ricci, ex pugile che da anni lo teneva sotto pressione tormentandolo e umiliandolo, sia fisicamente sia psicologicamente. Il fatto di cronaca viene consegnato alla memoria collettiva come il delitto del canaro della Magliana, e gonfiato da una serie di dettagli raccapriccianti raccontati dall’omicida, poi smentiti dalle indagini degli inquirenti. De Negri, condannato a ventiquattro anni di carcere, ne ha scontati sedici, è uscito nel 2005, ed è tornato a vivere con la moglie.
Western suburbano
La vicenda in sé, ma soprattutto l’ambiguità del rapporto tra il canaro e l’ex pugile, sospeso tra fascinazione e paura, esemplare per un manuale di psicopatologia, ha colpito la sensibilità di narratore di Matteo Garrone, il quale ne ha fatto materia per il suo nuovo film, Dogman, solo lontanamente ispirato a come si dice siano andate realmente le cose. Per la quarta volta in concorso al Festival di Cannes, dopo due Grand Prix – a Gomorra e a Reality -, questa volta il film conquista il premio per la migliore interpretazione maschile attribuito a Marcello Fonte, una sorprendente rivelazione; da aggiungere che l’intero cast canino si aggiudica la Dog Palm.
Dogman si presenta come una sorta di western suburbano, ambientato in una periferia desolata, non identificabile, dove i rapporti umani sono regolati dalla sopraffazione; la dimensione temporale rimanda alla contemporaneità, ma, come lo spazio, tende a una sorta di astrazione, a formare un fondale narrativo dove può prendere vita una favola nera, che scava su istinti primordiali, come le tre inscenate nel Racconto dei racconti, ispirate all’opera di Giambattista Basile. Ma è il lavoro eccellente sui personaggi e sulla direzione degli attori che segna la cesura profonda con la realtà del fatto di cronaca.
Simone e Marcello
Marcello (Marcello Fonte) è un uomo mite, un uomo antico e nello stesso tempo un Buster Keaton moderno – secondo le parole di Garrone –, il quale si prende cura amorevolmente dei cani che gli vengono affidati, riuscendo ad ammansire anche quelli più feroci – come il pittbull minaccioso della prima sequenza. Nella sua apparente ingenuità si nasconde una complessità psicologica che lo illude di riuscire a rendere mansueto anche un animale con sembianze umane, Simone (Edoardo Pesce, irriconoscibile e bravissimo), un bestione – chiamato paradossalmente da tutti Simoncino – che terrorizza il quartiere con la violenza, incapace di comunicare, prigioniero della sua aggressività. In questo contesto cupo, angosciante, e anche disturbante, gli unici squarci di luce sono quelli in cui Marcello trascorre del tempo in compagnia della figlia Alida, specie quando condivide con lei la loro passione in comune, le immersioni subacquee. Si fa un anno di galera Marcello, inspiegabilmente, almeno a livello razionale, per coprire la colpa di Simone che è sotto gli occhi di tutti, ma quando torna è un altro, pretende di riaffermarsi nella piccola comunità in cui ha costruito la propria vita, dove ormai è considerato un reietto, e pretende che Simoncino gli restituisca la dignità che gli ha tolto: di fronte alla sua irremovibile animalità lo ammazza, brutalmente, ma lui resta umano, non è un buono che si trasforma in mostro, non ha molto da condividere con il David Sumner di Cane di paglia di Sam Peckinpah né con il Giovanni Vivaldi di Un borghese piccolo piccolo di Mario Monicelli; nelle ultime splendide sequenze, Marcello diventa una figura cristologica che si porta addosso il cadavere del suo torturatore come portasse una croce, e alla fine viene lasciato nella sua desolante e definitiva solitudine.
Con Dogman Matteo Garrone ritrova le origini della sua migliore ispirazione artistica, quel magnifico film che è L’imbalsamatore, presentato alla Quinzaine di Cannes nel 2002, anche quello vagamente ispirato a un fatto di cronaca; in questo nuovo lavoro, la sua personale visione del cinema è potenziata ulteriormente da una maturità artistica che si è accresciuta nel corso degli anni.
Garrone filma con il rigore e la padronanza tecnica che gli sono propri, procedendo per piani fissi, e inquadrature a figure totali che mostrano, sin dall’inizio, la sproporzione tra la piccolezza di Marcello e il gigantismo di Simoncino; costruisce un’opera tanto compatta sul piano del racconto quanto affascinante sul piano visivo, aiutato in questo dal contributo del direttore della fotografia, il danese Nicolaj Bruel, eccellente nel saper rendere il livore della trama con i toni del grigio-blu e dell’ocra carico; le inquadrature rivelano una valenza pittorica che non scade mai nell’autocompiacimento. Con Dogman, il regista romano vince la sfida più ardua della creazione artistica: quella di saper utilizzare le risorse della bellezza formale per raccontare il dolore e la fragilità della condizione umana, e riscattare così una vita marginale – minuscola, l’avrebbe definita Pierre Michon – attraverso uno straordinario talento di narratore.
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F Pettinari è critico cinematografico