Raffinato studio di un microcosmo familiare
recensione di Francesco Pettinari
In un momento imprevedibile della vita, ci si ritrova a fare i conti con lo scorrere del tempo, a confrontarsi con il rimpianto di ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, e a dover prendere consapevolezza di quello che invece si è diventati: questo l’assunto tematico del nuovo film di Kore-eda Hirokazu che da noi esce con un titolo assai suggestivo, Ritratto di famiglia con tempesta, mentre il titolo internazionale è After the Storm. Il film arriva nelle sale grazie alla Tucker Film, la società di distribuzione guidata dalla stessa équipe che organizza a Udine il Far East Film Fest, uno degli appuntamenti di maggiore importanza per conoscere il cinema orientale in Italia. Il pubblico italiano ha avuto modo di conoscere negli ultimi anni il cinema del regista giapponese, classe 1962, grazie alla distribuzione dei suoi due lavori precedenti: Like father, like son – Premio della Giuria a Cannes 2013 – e Our Little Sister, presentato in concorso a Cannes nel 2015; il resto della ricca cinematografia di Kore-eda Hirokazu, purtroppo inedito in Italia, è ricco di titoli importanti tra i quali si segnalano I Wish del 2011, Nobody Knows del 2004, Distance del 2001, tutte opere presentate nei maggiori festival e elogiate dalla critica di tutto il mondo.
Anche Ritratto di famiglia con tempesta è stato presentato al Festival di Cannes, lo scorso anno, curiosamente nella sezione “Un Certain Regard” e non nel concorso principale come i precedenti; Thierry Frémaux, delegato generale, durante l’annuncio della selezione ufficiale, quasi a volersi giustificare della scelta, ne aveva parlato come di un bel film minore, un’espressione che si presta a non pochi fraintendimenti: può significare un film meno ambizioso, più modesto, alcuni critici hanno evidenziato una diminuita cura a livello formale; per contro, minore può anche leggersi in un senso analogo a quello che si utilizza nel linguaggio musicale, a indicare una partitura da camera anziché una sinfonia, oppure come una petite musique nell’accezione proustiana dell’espressione, o ancora come un saper dipingere, con poche pennellate, con un’encomiabile economia espressiva, una storia che pure arriva a toccare temi universali. Dopo aver visto il film, si fa davvero fatica a considerarlo meno riuscito dei lavori precedenti. Intanto, è evidente la continuità a livello tematico: in rapporto con lo scorrere del tempo, al centro dell’attenzione c’è sempre la famiglia, una famiglia divisa per qualche motivo, e il racconto si concentra sul tentativo di ricomporla; inoltre, lo sguardo del regista rivela sempre un riguardo particolare nei confronti dell’universo femminile e, in modo specifico, di quello dell’infanzia – la grazia con cui Kore-eda Hirokazu filma i bambini è unica -; e il punto di arrivo, il finale, non è mai risolutivo, ma sempre sfumato, aperto a molteplici letture.
Da causa di frattura a elemento di riavvicinamento
La trama del film ruota intorno a Ryota Shinoda (Hiroshi Abe): più che il protagonista, si rivela rappresentare il centro di gravità, il polo di attrazione di tutti gli elementi – personaggi e tematiche. Si tratta di un uomo colto in un momento critico della vita: la vocazione alla scrittura l’ha portato a smarrire la strada, ha pubblicato un solo romanzo anni prima, nel presente si guadagna da vivere lavorando come investigatore privato, ma i soldi che guadagna li dilapida nelle scommesse e nel gioco d’azzardo: per questo è la pecora nera della famiglia di origine, per questo va a far visita alla madre, rimasta vedova da poco, per vedere se riesce e trovare qualche oggetto di valore da trasformare in denaro; per questo è stato lasciato dalla moglie Kyoko, anche se la ragione principale è un’altra, e si lega a un altro tema forte del film: Ryota non è cambiato nemmeno dopo che è diventato padre di Shingo, e anche con il figlio il rapporto è complicato, quando può incontrarlo, una volta al mese, non ha mai il denaro pattuito per gli alimenti; è quindi lui la causa della divisione della famiglia, ma è altresì lui che tenta, seppure maldestramente, di riunificarla; soprattutto Ryota cerca di ritrovare, nel rapporto con il figlio, il senso della paternità perduta.
La prima parte del film risulta frammentaria, può apparire sfilacciata, ma è tale programmaticamente: mostra Ryota nelle diverse situazioni che vive e, sul piano stilistico, evidenzia un cambiamento, questo sì, rispetto ai film precedenti di Kore-eda: anche qui, il suo umanesimo si ritrova intatto nella tessitura dei rapporti tra i personaggi, ma si manifesta soprattutto attraverso quello che si dicono, sono i dialoghi che rivelano la profondità di sguardo del regista, e questo aspetto non va certo a discapito della bellezza formale del film, che si mostra anche grazie al notevole lavoro del direttore della fotografia, Yutaka Yamazaki.
La seconda parte è più compatta, anche rispetto all’unità di tempo, di luogo e di azione: qui entra in gioco la tempesta evocata dal titolo – che a dire il vero nel contesto del film è più un tifone – annunciata all’inizio da una voce radiofonica che avvisa del suo avvicinarsi; ebbene, la raffinatezza e il controllo della drammaturgia fanno in modo che si renda possibile una vera e propria riunione di famiglia: Ryota, Kyoko e Shingo si ritrovano a casa dell’anziana madre di lui, Yoshiko – interpretata da Kirin Kiki, già fantastica protagonista de Le ricette della signora Toku di Naomi Kawase, insieme a Kore-eda l’altro grande esponente del cinema d’autore giapponese contemporaneo. Yoshiko diventa la figura-cardine della seconda parte del film: arriva la tempesta-tifone e Ryota, moglie e figlio devono trascorrere una serata e una notte nel minuscolo appartamento di Yoshiko: ecco la preparazione della cena, il bagno di rito, la disposizione dei futon per dormire; e una girandola di dialoghi e di confronti. Yoshiko parla separatamente con Ryota e con Kyoko, lei stessa cerca di fare in modo che moglie e marito rimangano soli, ma non c’è nulla da fare: Kyoko è decisa a voltare pagina e non ne vuole sapere di tornare a fare la moglie di un uomo che l’ha troppo delusa. Decisamente meglio va il tentativo di recupero della paternità da parte di Ryota: nonostante la pioggia battente, in piena notte, padre e figlio, meravigliosamente complici, decidono di uscire di casa con tanto di provviste alimentari e andare a infilarsi nello spazio cavo di una costruzione al parco giochi per osservare la tempesta, e a un certo punto saranno raggiunti anche da Kyoko: per un momento, grazie a questa situazione, la famiglia è davvero riunita. Arriva il mattino, la voce radiofonica annuncia che la tempesta-tifone si è spostata: ma non è solo una calamità naturale dalla potenzialità disastrosa, è anche un elemento purificatore: Ryota deve separarsi da Shingo e da Kyoko, ma qualcosa è comunque successo: padre e figlio si sono riavvicinati; e marito e moglie, ormai ex sul piano sentimentale, hanno però capito che, nonostante la separazione, saranno sempre una coppia in quanto genitori del loro figlio.
Come sempre, la valutazione di un film non è limitabile soltanto alla visione, ma si arricchisce di elementi significativi attraverso la documentazione, non soltanto quella relativa alle recensioni, ma anche quella che si può definire di prima mano, e cioè le dichiarazioni e le interviste rilasciate dal regista rispetto alla genesi e alla gestazione dell’opera. Si viene così a conoscenza del fatto che questo è un film con molte implicazioni personali per il regista: si tratta di un progetto legato alla morte di entrambi i genitori, prima il padre, poi, più recentemente, la madre; e allora si resta colpiti dal fatto che gli occhiali che spesso si vedono inforcare da Kirin Kiki sono quelli appartenuti alla madre del regista, e che l’attrice ha domandato di proposito al regista di poter avere un oggetto personale della madre; e che i palazzi condominiali alla periferia di Tokyo dove si trova l’appartamento di Yoshiko sono quelli dove il regista ha vissuto dai nove ai ventotto anni; e che il titolo del film in lingua giapponese significa qualcosa come “più profondo del mare”, un’espressione che fa riferimento a una canzone popolare e che Yoshiko riprende durante un dialogo: tutto l’insieme aggiunge un valore di autenticità e di profondità al realismo della messa in scena.
E chissà che non sia stata la rielaborazione narrativa del proprio vissuto a far decidere il regista di affidare proprio a un bambino una possibile e valida alternativa al comportamento del padre: al posto del rimpianto, dell’amarezza e dello sconforto, Shingo propone la capacità di accontentarsi, suggerita attraverso una metafora sportiva: lui ama molto il baseball, ma è consapevole che non diventerà mai un campione, e allora cercherà di fare punti non ricorrendo all’home run, ma semplicemente con il walk.
Nella raffinata tessitura di questa coreografia di rapporti e di legami personali all’interno di un microcosmo familiare si ritrova appieno la capacità di raccontare la quotidianità ordinaria, quella che non può che manifestarsi in toni pacati, quella che non può non lasciare fuori campo tutto ciò che è spettacolare e fuori dell’ordinario. Al termine della visione, si riassapora il gusto pieno che lasciano la capacità di comprensione della vita e la consapevolezza dell’importanza di quello che si rivela nelle sfumature e nei piccoli gesti: tutto questo fa di Kore-eda Hirokazu, nella legittima autonomia della sua personalità artistica, l’erede di un maestro assoluto come Ozu.
fravaz_tin_it@hotmail.com
F Pettinari è critico cinematografico