Jean-Pierre Ponnelle – La Cenerentola

Il trionfo della bontà: quando l’opera diventa cinema

di Matteo Bernardini

Il regista tedesco Werner Herzog ha dichiarato in più occasioni che “Opera e Cinema sono come cane e gatto. Unirli non è una buona idea, perché nulla di decente ne uscirà fuori”. Concludendo, poi, così: “Anche i più grandi hanno fallito, come ad esempio Bergman”.
Parlando di opera al cinema è infatti impossibile non pensare al grande maestro svedese e alla sua trasposizione del Flauto magico (di cui vi proponiamo un estratto qui), dichiarazione d’amore al mondo del teatro musicale (e a Mozart in particolare). Nella lunga (seppur non troppo florida) tradizione dei film-opera, il capolavoro di Ingmar Bergman è l’unico lungometraggio a essere ritenuto, appunto, un capolavoro. E lo è per l’idea geniale che il cineasta pone alla base della sua drammaturgia: raccontare la storia non dall’interno della trama, attraverso un mondo fiabesco spacciato per reale, bensì dal di fuori, attraverso il resoconto di una rappresentazione dell’opera mozartiana sul palco come dietro le quinte, svelando le artigianali magie del mondo teatrale e arrivando a fondere gli interpreti con i loro personaggi in una grande sintesi poetica.

Una scena del Flauto Magico di Ingmar Bergman (1974)

Una scena del Flauto Magico di Ingmar Bergman (1974)

Spesso, infatti, i film-opera si limitano a trasporre il mondo musicale all’interno di quello classicamente cinematografico, il quale per sua natura punta di solito alla verosimiglianza, al convincere lo spettatore di essere una mosca silenziosa e invisibile calata nel mondo – reale perché realistico – dei protagonisti (siamo lontani dai giochi meta-cinematografici di Bergman). Ed è proprio questo che Herzog critica sul piano intellettuale: in un mondo in cui i personaggi, per esprimersi, cantano in continuazione e in cui la riflessione ha la meglio sull’azione (l’aria palesa i moti interiori e, per dirla con Herzog: “I personaggi impiegano cinque minuti a rispondere a una semplice domanda”), non sembra esserci spazio per il concetto di tempo che ha l’arte cinematografica.

Tuttavia, per quanto questo sia comprensibile, è difficile non riconoscere i meriti del Flauto bergmaniano e di alcuni altri esperimenti mossi in tale direzione; ciò che realmente sembra generare il fallimento è la scarsa predisposizione di molti registi (spesso intimoriti dalla statura di certi compositori, o più semplicemente poco preparati) al materiale affrontato: molti si limitano a eseguire una trasposizione, senza tenere conto delle caratteristiche (e dei punti di forza) dei due mondi.
C’è, però, chi ci è riuscito, anche se non sempre viene ricordato come dovrebbe. Mi riferisco a Jean-Pierre Ponnelle, uno tra i più grandi nomi della regia operistica mondiale, le cui produzioni sono divenute in gran parte storiche e riproposte ancora oggi, in alcuni casi a più di quarant’anni di distanza. Francese, nato a Parigi nel 1932, Ponnelle è stato uomo di teatro a 360 gradi: non solo ha curato la regia dei suoi spettacoli, ma per questi ha elaborato anche scene e costumi. Ha amato a tal punto l’opera da portarla sullo schermo, non come semplice trasposizione filmata di una propria regia, ma rielaborando lo spettacolo in modo da sfruttare al massimo le capacità che il mezzo filmico concede.

Cenerentola (1981)

La Cenerentola (1981)

Fra i titoli spiccano un Carmina Burana (1975) in versione scenica (come, del resto, originariamente previsto da Orff), Rigoletto di Verdi (1982), i mozartiani Le nozze di Figaro (1975), Così fan tutte (1988), Mitridate (1986), La clemenza di Tito (1980) e La Cenerentola di Rossini (1981, qui un breve estratto). Quest’ultima pellicola merita di essere raccontata ed elogiata non solo perché è probabilmente il capolavoro filmico del regista francese e uno dei migliori risultati in tal senso, ma ancor più perché le incursioni cinematografiche di Ponnelle sono oggi largamente dimenticate: sono infatti inspiegabilmente mancanti dai vari dizionari di film. Questa mancanza è forse dovuta a una catalogazione spiccia, che vede queste produzioni come un ibrido mal riuscito (per citare sempre Herzog), tuttavia Ponnelle è un regista troppo capace, troppo attento al dettaglio musicale e alla sfumatura psicologica per non garantire risultati interessanti quando non bellissimi. Dispiace dover contraddire il grande Herzog, ma più si guarda la Cenerentola e più risulta complicato credere che cinema e opera siano davvero mezzi incompatibili.
La Cenerentola o sia il trionfo della bontà di Rossini è un melodramma giocoso del 1816, ed è uno dei migliori esempi di quella sferzante ironia tipica del genio pesarese. Ispirata alla fiaba di Perrault, per espressa richiesta del musicista venne privata di ogni elemento magico e surreale, al punto che la fata madrina viene sostituita dal saggio Alidoro, anziano educatore del principe e votato alla ricerca della giusta sposa per il suo protetto.

Cenerentola (1981)

Una scena della Cenerentola (1981)

Ponnelle ambienta la sua versione all’interno del teatro La Scala ma, a differenza di Bergman, non sottolinea mai la presenza del mondo del palcoscenico. Il pubblico ha modo di capire che ci troviamo in un mondo a parte, le cui scenografie sono dichiaratamente finte, in cui intere pareti risultano essere di tela e si muovono a mo’ di sipari. Nulla è reale, eppure tutto risulta verosimile grazie alla naturalezza con cui gli interpreti vivono gli ambienti.
Il regista non recupera mai direttamente il fiabesco, eppure vi fa continui rimandi attraverso artifici scenici e una generale atmosfera surreale che strizza continuamente l’occhio a Fellini e ai libri per l’infanzia di inizio novecento. In questo senso diventa fondamentale il suo approccio all’immagine filmata, poiché in Ponnelle la macchina da presa si muove sempre in relazione allo spartito. Nelle Nozze di Figaro, per esempio, per raccontare un duetto in forma di rondò, decide di riprendere le cantanti attraverso movimenti circolari di macchina, traducendo letteralmente sul piano visivo l’andatura musicale del momento.

Federica Von Stade

Federica Von Stade

In Cenerentola compie un ulteriore passo avanti: sono gli stessi personaggi a muoversi e ad atteggiarsi attraverso precise coreografie, creando uno straniamento magico e fortemente ironico, quando non direttamente comico. Certi gesti, certi tagli di montaggio risultano ricamati alla perfezione sullo spartito tanto che risulta impossibile pensare ad una versione alternativa; non solo: Ponnelle si sofferma spesso su primi piani dei personaggi catturandone le più sottili sfumature d’espressione, sottigliezze – queste – impossibili in teatro e che solo il cinema può regalare. Il regista gioca così di continui rimandi all’insieme globale così come alla sfera più intima, valorizzando i dettagli e obbligandoci a pensare che, forse, il mezzo ideale di rappresentazione della Cenerentola rossiniana è proprio quello della settima arte. Risulta difficile, infatti, pensare a quella stessa produzione trasposta in teatro: l’impossibilità di poter godere, in quel contesto, dei cantanti che si avvicinano alla cinepresa ammiccando agli spettatori, l’inattuabilità di piani diversi di racconto visivo (montaggio) che consentano la focalizzazione su determinati personaggi e altrettanti snodi narrativi sono elementi che ci fanno capire quanto accuratamente Ponnelle abbia lavorato a rendere questo film-opera un’esperienza a sé stante, in tutto e per tutto alternativa ad una visione classicamente teatrale.

In questo è coadiuvato da un team artistico di primissimo livello: tutti i cantanti sono anche ottimi attori (elemento piuttosto raro), in grado di smorzare gesti plateali e  altre abitudini del palcoscenico impresentabili al cinema, favorendo al contrario un’attenzione per le minuzie che risulta, a tratti, stupefacente.
Frederica Von Stade ha il phisique du role per il ruolo della protagonista: bravissima e scattante, sceglie di interpretare il personaggio come un esempio di alta virtù e bontà, senza tuttavia mai scadere nello stereotipo. Bravissimo il Principe di Francisco Araiza, e ancora meglio il Dandini di Claudio Desderi, attore eccezionale e che sa cucire il proprio canto e la propria presenza scenica attorno alle necessità interpretative del proprio personaggio. Una menzione a parte meritano il grande Paolo Montarsolo nei panni di Don Magnifico (molto caricaturale, ma mai “stroppiato”) e soprattutto Margherita Guglielmi e Laura Zannini nel ruolo delle detestabili sorellastre, veri pilastri comici della vicenda e che meritano più di tutti gli altri la definizione di “cantanti-attrici”. A coronare il tutto, l’orchestra della Scala di Milano condotta dal maestro Claudio Abbado.

Questo semplice elenco di nomi dovrebbe bastare a risvegliare l’interesse nei confronti di un piccolo gioiello che merita di essere riscoperto (laddove non scoperto del tutto), anche soltanto per rendersi conto che il cinema – in rari, brillanti casi – è in grado di fondersi con l’universo operistico e di generare nuove meraviglie. Perché questa delicata operazione riesca, bisogna affidarsi alle mani esperte di una guida geniale e sicura e che sia in grado di effettuare una traduzione e non un trapasso. Jean-Pierre Ponnelle possiede queste caratteristiche e crea un mondo frizzante, perfettamente in grado di reggersi sui propri piedi e che, ricco di intellettualità ma privo di intellettualismi, si abbandona all’intrattenimento più sano e più puro, provocando di volta in volta fragorose risate. Cinema e opera saranno anche cane e gatto, ma a volte l’uno giunge in aiuto dell’altra instillandole nuova linfa ed impedendole di sfiorire.

matteo.bernardini86@gmail.com

M Bernardini è regista