Una via crucis laica
recensione di Francesco Pettinari
Jean-Pierre e Luc Dardenne
DUE GIORNI, UNA NOTTE
con Marion Cotillard e Fabrizio Rongione
Belgio 2014
Il disagio sociale e la volontà di riscatto: questi i due temi fondamentali che ricorrono in tutta la filmografia dei fratelli Dardenne. Una ragazza vive con la madre alcolizzata in una roulotte e fa di tutto per trovare un lavoro; una coppia di giovani con un bambino sono alle prese con qualunque espediente pur di tirare avanti: queste due situazioni per ricordare Rosetta del 1999 e L’enfant del 2005, entrambi Palma d’oro. Veri e propri pupilli del festival, i Dardenne hanno presentato a Cannes tutti i loro film, portandosi sempre via qualche riconoscimento; Due giorni, una notte, presentato all’ultima edizione del festival, non è entrato nel palmares, dopo essere stato fino all’ultimo tra i favoriti. Il film è stato accolto con molto favore dalla critica e dal pubblico, ma anche con qualche scetticismo. Le tematiche sono le stesse di sempre: in questo caso, il lavoro al tempo della crisi; la lotta per il posto e per la propria dignità; l’opposizione tra singolo e gruppo di appartenenza, tra egoismo e solidarietà. Come sempre, i film dei Dardenne raccontano un segmento temporale preciso, che in questo caso è indicato dal titolo stesso, e come sempre c’è un prima che lo spettatore deve ricostruire basandosi sulla visione di un presente che non si permette mai alcun flashback.
Sandra (Marion Cotillard) e Manu (Fabrizio Rongione) sono una coppia di bassa estrazione sociale, con due figli piccoli: insieme stanno cercando di migliorare la propria condizione di vita: dalle case popolari sono passati a una casetta propria che hanno acquistato con il mutuo. A un certo punto Sandra cade nella depressione, diventa dipendente dai farmaci, è costretta ad assentarsi per un lungo periodo dal lavoro. Il film comincia con l’evento che fa scattare la dinamica che poi è contenuta nei due giorni e una notte indicati dal titolo: una telefonata informa Sandra che il capo del personale ha proposto ai colleghi una votazione: hanno dovuto scegliere tra la sua reintegrazione nel posto di lavoro o un bonus di mille euro; la maggioranza ha votato per il bonus, anche sobillata dal capo che ha parlato male di Sandra, perché considera la sua malattia come una colpa, e pensa che al suo ritorno lei non possa essere produttiva come prima. Nonostante la tensione, e la depressione che si rifà subito acuta (la porterà anche a un tentativo di suicidio), Sandra, sostenuta da Manu e da un’amica-collega, decide di proporre al capo una nuova votazione il lunedì mattina e si prende il fine settimana per incontrare i colleghi e cercare di convincerli a scegliere lei.
Il racconto si configura così come un viaggio picaresco, una sorta di via crucis laica, e, giocoforza, si regge sul meccanismo della ripetizione, il fattore che è stato la causa dei giudizi contrastanti. Eccetto i tre che hanno voltato per lei, Sandra incontrerà tutti gli altri, tranne due, uno lo sente al telefono e uno non lo trova. Si offre così allo sguardo dello spettatore un campionario di umanità che è quella più rappresentativa del tessuto sociale più colpito dalla crisi. Le motivazioni di chi sceglie il bonus anche in presenza di Sandra sono tanto all’insegna dell’egoismo quanto giustificabili rispetto alla crisi: c’è il collega che deve mantenere la figlia all’università; c’è la collega che si è separata e deve rimettere su casa con il nuovo compagno; c’è il collega-iena, il quale addirittura le riferisce, sadicamente, che il capo vuole farla fuori, che il lavoro che facevano in diciassette si può fare anche in sedici, anzi, ognuno potrà avvantaggiarsi di tre ore di straordinario. In tutti i casi compare una domanda ricorrente: “Gli altri cosa dicono?”, la domanda che più di altre rimbalza allo spettatore. Anche chi sceglie il bonus si pone il problema di una coscienza di classe in un’epoca in cui il senso di appartenenza a un gruppo è compromesso dalle manipolazioni, dai soldi facili, e dall’individualismo.
La lotta di Sandra finisce in parità: otto a favore, otto contrari, ma il suo coraggio ha colpito anche il capo, il quale le propone di reintegrarla due mesi più tardi, ma la condizione è che non verrà rinnovato il contratto a tempo determinato al collega di colore; ovviamente, lei non accetta. Per una volta un film dei Dardenne non si chiude con un taglio netto, ma finisce all’insegna della speranza; nulla di edulcorato né di consolatorio: Sandra parla al cellulare, dice a Manu che sarà difficile, che quel giorno stesso inizierà a cercare un nuovo lavoro, che hanno lottato bene; e lo spettatore la vede allontanarsi di schiena, a figura intera, consapevole che lei è uscita da questo percorso con una ritrovata fiducia in se stessa.
Molto significativo il caso del collega che Sandra incontra su un campo sportivo mentre lui allena una squadra di ragazzini: trovandosela davanti, quest’uomo, che nella prima votazione aveva scelto il bonus, scoppia a piangere e le chiede perdono; nell’inquadratura che li vede uno di fronte all’altro, non si vede più il confronto, bensì il riconoscersi. Poi c’è il collega di colore, il quale confessa a Sandra che, avendo un contratto a tempo determinato, ha votato per il bonus perché, come lei, ha paura del capo, ma anche per lui la solidarietà ha la meglio. C’è anche la collega che si rifiuta si parlarle. C’è il collega violento che prende a pugni un altro collega perché sta dalla parte di Sandra. Il caso più sorprendente è quello della collega che in un primo momento è scettica perché anche lei ha bisogno di soldi per ristrutturare la casa, e il marito, che si vede per pochi secondi, le ha imposto la scelta del bonus; ma, dopo qualche ora, la vediamo arrivare a casa di Sandra e dirle che non solo voterà per lei, ma che tocca a lei ringraziarla perché ha anche deciso di lasciare il marito, e, grazie a questa situazione, si è resa conto che, per la prima volta in vita sua, è stata in grado di prendere una decisione da sola. Parlare di ripetizione in un contesto del genere è davvero limitativo, perché le diverse situazioni vanno anzi a costituire la molteplicità in una macchina narrativa che è perfetta, se si pensa alla sfida di Sandra e al tempo che ha a disposizione. E poi come non ricordare che l’iterazione (la serialità) è anche un gesto artistico che informa di sé l’arte contemporanea, quella, per dirlo con Benjamin, nell’epoca della sua riproducibilità tecnica? Sono noiose le serigrafie di Andy Warhol? È noiosa la musica di John Cage? E sono noiose le nature morte di Giorgio Morandi?
In un film così sobrio e così restio a qualunque cedimento alle tentazioni del racconto facile (la retorica dei sentimenti, il pathos legato alla situazione della protagonista, il ricatto emotivo allo spettatore) ci sono tre momenti in cui l’emozione è stimolata da accensioni inattese, e per questo bellissime, e guarda caso sono legati alla storia d’amore tra Sandra e Manu che è fondamentale per leggere tutto il film. Due sono dovute alla musica, che compare in due momenti a livello diegetico: mentre Sandra è in macchina col marito e stanno andando a incontrare l’ennesimo collega, la radio trasmette un brano di Petula Clark, La nuit n’en finit plus (del 1965, bellissimo e nostalgico) e qui vediamo per la prima volta il viso di Sandra abbandonarsi a un sorriso che s’imprime nella memoria dello spettatore; così come quando è col marito e la collega che ha lascito il suo, e Gloria di Van Morrison diventa una sferzata di energia condivisa nella determinazione a voler andare avanti.
Ma il momento più bello vede Sandra e Manu seduti su una panchina a gustarsi un gelato durante una pausa dagli incontri: a un certo punto, lei gli dice “Vorrei essere come lui” e lui le chiede “Come chi?” e lei risponde “Come quell’uccello che sta cantando”, ma la frontalità del cinema dei Dardenne non mostra nulla allo spettatore: l’uccello resta confinato nel fuoricampo, indicato soltanto dalla direzione dello sguardo di Sandra.
Proprio Marillon Cotillard incarna strepitosamente non solo il personaggio di Sandra ma lo spirito di questo film: una diva del momento che i registi belgi hanno completamente disinvestito di qualunque retaggio glamour: un jeans e una canotta, non un filo di trucco; semplice, disadorna, come questa storia che non poteva che essere così come è, per arrivare con tutta la sua urgenza allo spettatore, senza alcun vezzo stilistico, senza mediazioni estetiche che non sarebbero state affatto pertinenti, ma con una messa in scena pulita che fa coincidere alla perfezione fabula e intreccio. Cinema della purezza, alla Dardenne.
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F Pettinari è critico cinematografico