Liegi, Belgio, Europa: l’agire istintivo che si fa gesto politico
recensione di Grazia Paganelli
dal numero di luglio/agosto 2016
Jean-Pierre e Luc Dardenne
LA FILLE INCONNUE
con Adele Haenel, Jérémie Renier, Olivier Gourmet, Fabrizio Rongione, Thomas Doret
Francia 2016
Una giovane dottoressa rinuncia a lavorare in uno studio medico più prestigioso per continuare a praticare nell’ambito del servizio pubblico. La ragione di questa scelta improvvisa sta in un senso di colpa tutt’altro che latente, nato da un gesto egoista e di rivalsa nei confronti del suo tirocinante, che avrebbe voluto aprire la porta a una paziente arrivata dopo la chiusura dell’ambulatorio, e che avrebbe così salvato la vita della sconosciuta cui è dedicato il titolo. Inizia in questo modo La fille inconnue di Jean-Pierre e Luc Dardenne, presentato in una competizione del Festival di Cannes in cui erano presenti altri film sul sentimento della colpa a partire da approcci diversi e diversi intenti drammaturgici. «Abbiamo cercato di seguire il flusso della vita senza fissarla e bloccarla in una gabbia», anticipano i due registi, giunti ora al decimo film (il settimo inserito nel concorso di Cannes), forse tra i più premiati da quando nel 1999 hanno vinto la Palma d’oro con Rosetta. Da allora, infatti, hanno fatto seguito la Palma d’oro nel 2005 con L’enfant-Una storia d’amore, il premio per la migliore sceneggiatura per Il matrimonio di Lorna (2008) e il Gran premio della giuria per Il ragazzo con la bicicletta (2011).
Qui il centro dell’azione sta tutto nell’inizio. Pochi gesti di una quotidianità già distratta, che mostra le sue maglie larghe, l’ambizione, la fretta, la mancanza di ascolto, una certa competizione insinuante. Nessun dettaglio è lasciato al caso nel cinema dei Dardenne, perché con i dettagli costruiscono il loro microcosmo, colmo di segni e di vettori del tutto imprevedibili ma necessari ad arricchire l’ambiente o, meglio, a mostrarlo nella sua verità e interezza.
Un film notturno e marginale
Ogni gesto si estende e coinvolge cose e persone apparentemente distanti, e ha conseguenze a sua volta ancora più vaste. Come puntare la macchina da presa su un particolare e allargare via via lo sguardo fino a comprendere a fondo tutte le dinamiche coinvolte. La fille inconnue è un film notturno e marginale (è ambientato a Seraing, nella periferia invernale e anonima di Liegi dove i due registi hanno girato tutti i loro film), spinto in un paesaggio privo di punti di riferimento, che si mostra nella sua sguarnita essenzialità, smarrito nello spazio e sospeso nel trascorrere del tempo, come quasi tutti i suoi personaggi (anche tra gli attori ritroviamo volti noti, come Fabrizio Rongione, Jérémie Renier e Olivier Gourmet).
Così accade che ci si perda e che il dentro e il fuori si sgretolino, mentre il giorno e la notte acquistano un valore puramente esteriore, con luci e colori freddi o sbiaditi, sovraccarichi di grigio. Col suo girovagare, alla ricerca dell’identità di una ragazza nera, uccisa proprio davanti all’ingresso del suo studio medico, la dottoressa Jenny rivela un mondo ambiguo e indifferente, dove si consumano continui crimini, dallo spaccio alla prostituzione, dai tradimenti alle ragazzate adolescenziali. Tutto nello stesso spazio, nei vicoli ciechi dove le cose si confondono e si sovrappongono, strato su strato, fino al punto in cui diventa per lei impossibile distinguere e aggirare gli ostacoli o non farsi coinvolgere, appunto, dai diversi disagi che incontra. Pensare che tutto è partito da un diverbio con il giovane tirocinante, in cui lo invitava a non farsi condizionare dal dolore dei pazienti, ma di affrontare le emergenze con la maggior freddezza possibile.
Il percorso di Jenny rivela i segreti e finisce per mettere in crisi un ordine primitivo e invisibile, ma terribilmente organizzato. Non c’è in lei un disegno preciso, così come non esiste alcun desiderio di scoprire le ragioni dell’omicidio o l’identità stessa dell’assassino. Vuole dare un nome ad una ragazza uccisa che avrebbe potuto salvare, scriverlo sulla tomba che ha pagato e forse comunicare la triste notizia ai genitori. E così lancia a sua volta segnali, mette in giro voci, si muove senza sapere che la verità la sta accerchiando e la troverà impreparata. Il suo muoversi è disordinato, si diceva, al contrario del film che, invece, scopre le sue carte con astuta precisione. L’ossessione del medico è solo il pretesto per scoperchiare con fragore il tetto di un edificio che ci riguarda da vicino e descrivere una città, un paese, l’intera Europa, raffigurati nelle più evidenti fragilità del nostro tempo.
Questione morale cui Luc e Jean-Pierre Dardenne, autori anche della sceneggiatura del film, dedicano ogni pensiero. Con il loro cinema rigoroso e severo si addentrano in una riflessione pensata per anni, sfiorando il polar (all’inizio Jenny avrebbe dovuto essere un poliziotto), ma agendo in senso via via più ampio, secondo un percorso che va dal particolare all’universale, e poi ancora all’inverso. Si seguono i personaggi senza coinvolgerli in alcun tipo di complicità, ma come parte di una realtà urgente, che chiede attenzioni nel suo essere violentemente emarginata. Senza mai farne dei casi sociali, Jenny li esamina come esamina i suoi pazienti, partecipe e distaccata, cercando di trarre dalle reazioni del corpo le indicazioni per fare chiarezza. Sono corpi stressati o feriti, vecchi o giovani che siano, che fanno fatica a respirare sotto il peso di comportamenti inconfessabili, oppure minacciosi e aggressivi. Ecco la fisicità di un film che procede seguendo un istinto che non è inquietudine ma osservazione.
Seria, silenziosa e misteriosa
Per questo la macchina da presa non è più in continuo movimento, anzi, è statica, fissa sui volti e sulle parole di chi guarda, sostenendo la ripetizione con austera convinzione e quella responsabilità che permea tutti i film dei fratelli registi. Il loro scopo è di raccontare la storia di una dottoressa che non va a dormire dicendo «non ho visto nulla, continuo la mia vita come niente fosse», ma ferma a questo punto la sua vita e la modella attorno a un unico fatto. Un cambiamento di prospettiva assecondato da un importante cambiamento di forma, perché stabilisce una distanza maggiore dal soggetto rispetto ai loro titoli più famosi, e una sorta di assimilazione dello sguardo del film all’attitudine della protagonista, seria, silenziosa, a tratti ossessiva e misteriosa. E così, nella sua ricerca ostinata, Jenny scopre frammenti di un vivere personale, che ha a che fare proprio con la sua stessa identità, ma che restano insufficienti a descriverne la vita. Eppure è proprio lei a impegnarsi tanto per cercare le poche notizie della donna che ha suonato al suo campanello. Verrebbe da pensare alle porte chiuse della nostra Europa, al fatto che, come dirà Jenny a uno dei suoi pazienti, «ci accorgiamo della ragazza perché è morta», e con lei di tutto quel mondo che vive nascosto agli occhi dei più. Il gioco di specchi è innescato fin dall’inizio (a partire, dunque, dalle due donne, di cui veniamo a conoscenza solo di pochi dettagli), e potrebbe continuare all’infinito, secondo i diversi livelli di lettura, se non fosse che Luc e Jean-Pierre Dardenne hanno più volte fatto notare di non voler sostenere una tesi e di non avere messaggi da comunicare.
Come sempre nel loro lavoro è l’agire istintivo che si fa gesto politico e quello che dovrebbe essere una sorta di investigazione si fa punto di partenza e di arrivo di un discorso profondo all’interno dell’animo umano, degli impulsi invisibili, dei pensieri e delle paure sociali. Ed ecco che all’improvviso l’attenzione si sposta sottilmente, ma in modo indelebile, verso un mondo che esiste ma che non si vede, che preme contro i lati di ogni inquadratura e ne condiziona il senso. E non si tratta solo di quella periferia di degrado legata all’immigrazione clandestina, con tutta la conseguente perdita di identità che essa comporta, ma anche di quel non visto che sta intorno a ogni singola vita. Come se il film volesse mostrarci che ci sono situazioni impossibili da scoprire, che gli occhi non possono vedere e la ragione non può comprendere. A nulla serve l’ossessione, a nulla può portare il voler vedere di più, perché oltre una certa distanza l’osservazione perde lucidità, e ci si accorge che il nome di una donna uccisa stupidamente non basta a fare chiarezza sulle mille implicazioni del contesto intorno a lei.
g.paganelli@museodelcinema.it
G Paganelli è critico cinematografico e programmatrice del Museo nazionale del cinema
Una via crucis laica: sul numero di gennaio 2015 Francesco Pettinari recensisce Due giorni, una notte, un altro capolavoro dei fratelli Dardenne.