L’ossessione di una casa in cui tornare
recensione di Grazia Paganelli
dal numero di giugno 2017
Gianni Amelio
LA TENEREZZA
con Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno, Micaela Ramazzotti, Greta Scacchi, Renato Carpentieri, Arturo Muselli, Giuseppe Zeno, Maria Nazionale, Enzo Casertano
Italia 2017
Non sempre nella vita si riesce a diventare quello che si voleva essere. E allora, da questa vita, restano fuori aspirazioni, desideri, rimpianti, illusioni, sogni. Mille sentimenti intrappolati e non detti, forse neppure razionalizzati, eppure esplosivi e ingombranti. Si sofferma proprio su questo universo inespresso il nuovo film di Gianni Amelio La tenerezza, liberamente ispirato al romanzo La tentazione di essere felici di Lorenzo Marone (Longanesi, 2015), ma di fatto riscritto, anzi, personalizzato dal regista, che ha lavorato alla sceneggiatura con Alberto Taraglio (“complice” di Amelio anche per Così ridevano) facendone un film più che mai intimo, basato su riflessioni esistenziali di un uomo in un mondo in trasformazione.
Reduce da un infarto, l’anziano e scorbutico avvocato Lorenzo Bonsignore torna a casa e trova sulle scale del palazzo Michela, la nuova vicina che ha dimenticato le chiavi e non riesce a rientrare. Lorenzo, allora, la aiuta mostrandole il cortile attraverso cui i due appartamenti sono comunicanti e ponendo le basi di un’amicizia spontanea che presto coinvolge anche la famiglia di lei, il marito Fabio e i due bambini. Un cambiamento che è anche un evento inconsueto per Lorenzo, uomo inquieto e burbero, solo per scelta, dopo la morte della moglie e l’allontanamento dei figli, cui non riesce neppure a rivolgere la parola. Strada in controtendenza, capace, però, di scavargli nei pensieri silenziosamente.
Accade tutto nei silenzi
E lo stesso accade a Fabio, ingegnere navale che “è diventato quello che voleva sua madre” e vive la vita con rabbioso disagio. Ci si accorge presto che in questo film tutto accade nel non detto, nel passato rievocato solo in frammenti (l’amante di Lorenzo, la morte della moglie dopo aver scoperto il tradimento, l’infanzia dolorosa di Fabio e Michela) e in situazioni complesse ma rimaste inspiegate. Perché ad Amelio non interessa tanto il racconto di una storia canonica, quanto l’affioramento di un sentimento da vedere nei gesti e nei silenzi dei suoi personaggi. Ciò che s’instaura tra loro è una sorta di riconoscimento reciproco immediato, senza che esso sia mai esposto dalle parole. I personaggi si parlano attraverso dialoghi intensi per delicatezza e intuizione, ma si fermano sempre poco prima di dire di sé e dei propri pensieri, accontentandosi dell’allusione come regola per tenere un po’ lontana la realtà. Ma quando Lorenzo incontra la famiglia dei nuovi vicini tra i tavoli di un caffè, con la furia di Fabio contro un venditore ambulante, assiste in un attimo alla loro storia, individuale e collettiva, e riconosce la nota stonata di famiglie passate e relazioni irrecuperabili. Ecco l’enunciazione di simmetrie che saranno un punto di partenza nella costruzione di questo racconto, apparentemente disarticolato, in verità condotto seguendo ordinate corrispondenze.
La tenerezza è un film fatto di personaggi indomiti, rassegnati, attenti, sensibili, di cui Amelio studia il comportamento attraverso dettagli, quasi delle miniature, ognuna con il loro fardello significante. E così Fabio e Michela incarnano agli occhi di Lorenzo lo specchio per vedersi in profondità e capire i vuoti della sua anima, e viceversa, creando un circolo vizioso che si chiude con un gesto estremo e sparpaglia i pezzi messi in fila fino ad ora. Ma ciò che fa superare l’impianto melodrammatico al film è il fatto che questo non si chiude nella tragedia, anzi, la sfrutta per compiere un passo in avanti, contro ogni convenzione narrativa, e spingersi in una direzione più che mai esistenziale.
Raccontare in trasparenza
Nel frattempo, infatti, in questa storia si è insinuata la tenerezza e le cose hanno cambiato aspetto, lasciando in Lorenzo quello smarrimento da cui aveva scelto di tenersi a distanza. Deve fare i conti con i figli ignorati e con l’amore che ha smesso di provare quando sono diventati adulti e ora corre il rischio di precipitare. Amelio lo lascia cadere nel suo umanissimo sconforto. Nessuna scorciatoia e nessuna preparazione. Senza aver paura dei toni aspri e delle pulsioni forti, il film procede per scatti ed impennate, senza mai abbandonare il suo personaggio, che si muove affannato per strade e palazzi. La fatica di camminare e di salire le scale non lo ferma quando tra i vicoli deve cedere il passo ad uno scooter o farsi piccolo per oltrepassare la strettoia creata dall’ambulanza. Tra le mani i sacchetti della spesa o le pastarelle per il pranzo, negli occhi quella frenesia indiavolata di fare tutto da solo muovendosi rapidamente, “consumandosi le scarpe” nel suo inarrestabile andirivieni. Renato Carpentieri è protagonista assoluto, ma nella sua ambigua fisicità si muove attribuendo valore alla presenza degli altri personaggi.
“L’unico mio fiuto è che ci so fare con gli attori” dice Amelio, che, infatti, porta ognuno di loro (Micaela Ramazzotti, Elio Germano, Giovanna Mezzogiorno) ad assecondare automaticamente questa coreografia di vuoti e di pieni, pensata dal regista di Porte aperte (il primo suo film con Carpentieri). Lorenzo è corpo, ma anche fantasma o, meglio, rappresentazione di un’assenza cui ha affidato il governo dei suoi sentimenti. È un fantasma anche nel finale, quando compare dietro il vetro del tribunale, dove la figlia è interprete nei processi con imputati di lingua araba. Deve tradurre letteralmente le loro parole, ma vorrebbe poter riferire una verità diversa, che si intravede nei volti, nelle mani, nell’espressione dello sguardo. Si riconosce, così, il procedimento stesso della messa in scena, che aspira a raccontare i personaggi in trasparenza, cercando in essi le verità inespresse.
Napoli, cangiante e stracolma
In questo gioco di proiezioni, l’ambientazione ricopre un ruolo importante. Si tratta di una Napoli fatta di vicoli chiusi, strade strette e grigie, piena di gente e rumori, paesaggio caotico che confonde e distrae, luogo perfetto sul quale proiettare indirettamente gli interrogativi da tutti soffocati: in questo ambiente cangiante e stracolmo di segni si mimetizzano le insicurezze di ognuno, il caos interiore di Fabio, il senso claustrofobico in cui si muovono l’ex-avvocato faccendiere e la figlia Elena, che in questa città hanno sempre vissuto. Lorenzo, in particolare, fa suo questo spazio, si appoggia ai muri scrostati, attraversa le piazzette incastonate nel dedalo del centro storico, guarda spesso in alto, come a voler cercare sollievo nei brandelli di cielo, come se fossero rimasti intrappolati in questa rete fittissima i sentimenti più diversi che cerca di ignorare e dai quali nascono i conflitti.
All’opposto ci sono le linee rette della moderna architettura, in cui sembra corpo approdato per sbaglio. La nave vuota, quasi spettrale, che visita con il nipote, l’ospedale che cambia rumori e densità via via che si sale ai piani alti, dove i colori scompaiono e le luci verdastre tolgono profondità e ombre. Infine, il tribunale, assolato e rassicurante all’esterno, misterioso nei corridoi interni.
Qui Elena, dopo aver cercato a lungo il padre, lo vede comparire all’improvviso. Incapace di ignorarlo, come lui vorrebbe, lo insegue in tutto il film, contraccambia fastidio con preoccupazione, indifferenza con premura, silenzi con parole. “Un padre è un padre” dice al fratello che non comprende la sua ostinazione. Ma lei ha imparato da un poeta arabo che “La felicità non è una meta da raggiungere, bensì una casa dove tornare. Tornare… non andare”, ecco spiegata quest’ossessione, che altro non è se non fedeltà ai sentimenti, e aspirazione a una felicità saggia e superiore, che non resta imprigionata nei fatti mutevoli della vita quotidiana. Elena (come prima di lei Michela) ha il compito di offrire al protagonista quella casa dove tornare, l’approdo sicuro e famigliare, la mano da stringere dopo tanta freddezza. Ci si rende conto proprio nel finale dell’importanza delle connessioni tra le scene e le inquadrature: si tratta, nella maggior parte dei casi, di spazi lasciati vuoti o in attesa di essere riempiti, connessioni lente di un montaggio in cui è inscritta la sottile tensione di tutto il film, l’attesa di qualcosa di cui non si parla mai.
paganelli@museocinema.it
G Paganelli è critico cinematografico
La parola gay è una colata di cemento: sul numero di aprile 2014 Davide Oberto commenta Felice chi è diverso, film precedente di Gianni Amelio.