La città e il suo confine
recensione di Riccardo Fassone
dal numero di settembre 2016
David Robert Mitchell
IT FOLLOWS
con Maika Monroe, Height Keir Gilchrist, Olivia Luccardi, Lili Sepe
Usa 2014
Haddonfield, Illinois, è il prototipo dell’America suburbana. Viali alberati, villette, prati curati, adolescenti che lavano orgogliosi la propria auto usata davanti a un garage ingombro di attrezzi. È, insomma, la cristallizzazione di quella fantasia di vita non urbana, ma socialmente connessa, che innerva una parte sorprendente della cultura visuale statunitense. Equidistante dall’alienazione metropolitana e dall’isolamento rurale, il vivere promesso da Haddonfield ha le caratteristiche del compromesso felice: una comunità di pari che abita un luogo costruito per l’agio.
Haddonsfield è la cittadina immaginaria in cui è ambientato Halloween, uno dei film che più profondamente ha lavorato sulla contraddizione suburbana; una segregazione autoimposta che apre la strada a un incubo, una comunità i cui nodi sono così stretti da poter essere spezzati in un istante. Il film di John Carpenter, uscito negli Stati Uniti nel 1978, raccontava di un maniaco omicida, fuggito da un vicino ospedale psichiatrico, che nella notte di Halloween terrorizzava la cittadina. I giovani, massacrati metodicamente, erano il simbolo della precarietà e dell’artificialità del vivere suburbano: è sufficiente che uno di noi (Michael Myers, l’assassino mascherato, era parte della comunità) si ribelli perché il castello di carte crolli.
Cinema di luoghi
L’horror americano ha da sempre una vocazione alla riflessione urbanistica. Certamente gli aspetti psicologici, quando non apertamente psicanalitici, sono intrinsecamente parte del genere. Halloween, come molti altri slasher, gli horror in cui un maniaco solitario attacca una comunità di giovani, si è prestato negli anni a letture che ne evidenziavano il rapporto con rimozione e fobia. Tuttavia, l’horror americano contemporaneo è un cinema di luoghi e di tensioni fra luoghi. La suburbia indistinguibile da stato a stato contribuisce alla serialità del genere. Se Michael Myers ammazza in serie, è anche perché le case delle sue vittime sono una a fianco dell’altra, disposte con matematica regolarità. E allo stesso modo, in uno dei pochi horror davvero urbani degli anni ottanta, Candyman – Terrore dietro lo specchio (di Bernard Rose, 1992) lo spettro di uno schiavo afroamericano raggiunge le sue vittime negli appartamenti ad alveare di Cabrini Green, il mostruoso complesso popolare alla periferia di Chicago.
It Follows non si sottrae alla riflessione sul vivere suburbano inaugurata da Carpenter e, sebbene, come nota ad esempio Pietro Bianchi in un bell’articolo su «Le parole e le cose», ne rilanci il discorso psicanalitico, ne stravolge con ancora maggiore intensità quello urbanistico. Il film racconta di Jay, una ragazza che sembra la protagonista di molti slasher anni ottanta, il look aggiornato all’estetica un po’ heroin-chic del film di Mitchell, e della sua battaglia contro un incubo assurdo. Dopo una serata passata in compagnia di un ragazzo, Jay è oggetto di una maledizione: ovunque vada qualcuno la segue. Una donna anziana, una giovane in abiti sportivi, il sosia di un amico, un essere mostruoso. L’inseguitore, lento ma inesorabile, che solo Jay può vedere, cambia volto di continuo, e se dovesse raggiungerla la ucciderebbe. L’unico modo per liberarsi della maledizione è trasmetterla a qualcun altro attraverso un rapporto sessuale. A quel punto, il mutaforme si metterebbe sulle tracce di una nuova vittima, per raggiungerla e ucciderla.
Dal punto di vista dei meccanismi di genere, It Follows è un horror paradossale; l’assassino non è l’implacabile boogeyman di Venerdì 13 (1980, regia di da Sean S. Cunningham) o Nightmare (1984, diretto da Wes Craven), ma un essere spettrale, che si trascina verso la sua vittima e che guadagna terreno di giorno in giorno. Nel contesto di una quotidianità immota, quella di un gruppo di adolescenti annoiati, Jay vive un incubo che solo lei può vedere.
Il film si apre con un evidente rimando al cinema post-Halloween. Il solito quartiere residenziale (potrebbe essere Haddonfield, ma scopriremo che sono i sobborghi di Detroit) i soliti viali alberati, le solite auto parcheggiate nei vialetti. Una giovane fugge disperata dalla casa dei suoi genitori, come inseguita. Una metafora fulminante dell’adolescenza – il padre e la madre stupiti, la ragazza in preda a un lucido panico – e un evidente tentativo di depistare lo spettatore. Dov’è il boogeyman? Dove sono Michael Myers, Freddy Krueger e Jason Voorhees? Tuttavia, quando la maledizione viene trasmessa a Jay, l’idea che It Follows sia l’ennesimo film sull’incubo suburbano si sgretola. La protagonista, aiutata da un gruppo di amici disposti a crederle, inizia una faticosa peregrinazione che prosegue per tutto il racconto. La casa del ragazzo che l’ha contagiata, il cottage sul lago Michigan di uno degli amici, la 8 Mile Road, famigerata arteria che segna il confine del degrado urbano di Detroit, Jay ripercorre le tracce della sua maledizione. I protagonisti di It Follows, insomma, tentano di sottrarsi all’implacabile spettro spezzando la serialità. Lontano dalle case a schiera, dai viali e dai vicini di casa, alla scoperta della città che vedono di rado, dei quartieri spopolati, di una piscina semi-abbandonata. It Follows, insomma, lavora sul genere non solo perché, come molti horror contemporanei, ne ridiscute i meccanismi e i luoghi comuni narrativi, ma perché, più radicalmente, ne evidenzia una tensione, quella tra vita suburbana pacificata e auto-segregazione, e la esplora.
Terzo paesaggio
Il film di Mitchell (che aveva già lavorato sulle mitologie del cinema americano con il suo precedente lavoro, The Myth of The American Sleepover, 2010, è davvero un horror ambientato in quello che l’architetto Gilles Clément descrive come terzo paesaggio. La maledizione viene da quei luoghi lontani dall’antropizzazione e allo stesso tempo non incontaminati; dalle case invase dalla muffa e dalle radici, dalle piscine piene di alghe, dai quartieri industriali abitati da animali selvatici. E solo l’esplorazione di questo paesaggio semi-urbano può esorcizzarla.
Non sono stati molti, negli ultimi anni, gli horror capaci di superare la ludicità postmoderna – il sovvertimento delle regole narrative, la battuta autoconsapevole, la riproposizione di un luogo comune – per lavorare sul genere come veri testi teorici. L’esempio che per primo viene in mente è Drag Me to Hell di Sam Raimi (2009), che all’indomani della crisi dei mutui sub-prime ragionava su immigrazione e nuove povertà attraverso la metafora della lamia, l’implacabile divinità vendicatrice. It Follows è uno di questi: un saggio sul superamento dell’incubo suburbano. Le comunità non sono più provette in cui testare l’orrore dell’invasione, ma organismi in un sistema più complesso. Al di là della strada dove vive Jay c’è la Detroit degli spettri del crack, per ogni casa a schiera ce n’è una abbandonata, invasa dai tronchi di alberi indisciplinati, in un quartiere abbandonato. It Follows è, insomma, un horror che, in tutti i sensi, parla del contatto: quello tra la normalità e il fantastico, ma anche quello, più spaventoso, fra il vivere sanificato e quello violentemente compromesso con l’altro, tra la suburbia e la città.
I critici che si occupano di horror usano spesso una perifrasi assolutoria: «È più di un film di genere». Questo permette al critico di giustificare il proprio entusiasmo e, al contempo, di attirare l’attenzione dello spettatore che poco ama i generi. It Follows è un film importante proprio perché è un film di genere. Insieme a un’altra manciata di nuovi horror americani, uno è certamente The Witch di Robert Eggers (2015), il film di Mitchell fa quello che il buon cinema di genere ha sempre fatto: rivelare i discorsi profondi che innervano gli schemi narrativi, i meccanismi ricorrenti e le formule. It Follows, una sorta di saggio in forma di film, ma anche un film horror che non ha bisogno di precisazioni o assoluzioni, lavora magistralmente sugli spazi urbani dell’horror, sulla continuità tra lo spazio della quotidianità e quello del fantastico e del perturbante. Un orrore che non spezza la trivialità della vita suburbana, ma la circonda e la compenetra.
riccardo.fassone@unito.it
R Fassone insegna teoria e tecnica dei nuovi media