Una settimana, un giorno, un’ora: il caos della battaglia
recensione di Giaime Alonge
dal numero di ottobre 2017
Christopher Nolan
DUNKIRK
con Fionn Whitehead, Mark Rylance, Tom Hardy, Kenneth Branagh, Cillian Murphy
Gran Bretagna-Olanda-Francia-Usa, 2017
Nei minuti iniziali dell’ultimo film di Christopher Nolan, dedicato a uno degli episodi più tragici e più conosciuti della seconda guerra mondiale (almeno dagli europei; i critici americani, pur apprezzando il lavoro del regista inglese, hanno liquidato l’evacuazione di Dunkerque come un evento secondario), compare un gruppo di caccia britannici Spitfire in volo sul mare. La formazione è composta da tre apparecchi, ma abbiamo modo di vedere il volto solo di due piloti, di cui nel prosieguo della storia seguiremo le vicende: Collins (Jack Lowden), che viene abbattuto e raccolto da un’imbarcazione da diporto diretta a Dunkerque per collaborare all’opera di salvataggio, e Farrier (Tom Hardy), che combatte con coraggio e grande perizia fino alla fine. Il terzo pilota, il caposquadriglia, cade al primo scontro. Di lui lo spettatore coglie solo alcune parole alla radio, quando impartisce le istruzioni ai compagni in vista della battaglia imminente. Chi ha visto il film in lingua originale avrà forse riconosciuto la voce di Michael Caine, attore feticcio di Nolan, presente in tutti i suoi film a partire da Batman Begins (2005). Questo cameo sonoro è certo un piccolo gioco a uso dei fan, un po’ come le apparizioni di Hitchcock nei suoi film. Ma la presenza di Michael Caine come caposquadriglia ci dice qualcosa anche sulla natura profonda di Dunkirk. Nel corso della sua lunga carriera, Caine ha interpretato molti ruoli di soldato, e in particolare è stato pilota della Raf in I lunghi giorni delle aquile (1969), kolossal sulla battaglia d’Inghilterra. La sua voce che esce dalla radio di uno Spitfire è il segno della tradizione del cinema bellico euro-americano, tradizione con la quale Nolan costruisce un dialogo sottile.
Tutt’altro che un film rétro
Contrariamente a quanto avviene nella maggior parte dei war movies contemporanei, dominati da un uso ipertrofico dell’immagine computerizzata, che rende le scene di azione molto simili a videogiochi, Dunkirk – girato in pellicola – ricorre con parsimonia agli effetti digitali. Gli aeroplani che vediamo volare sono autentici apparecchi degli anni quaranta, oppure grossi modellini radiocomandanti, e dunque le sequenze di combattimento aereo hanno una qualità tutta analogica. Però, se sul piano della resa visiva Dunkirk è molto più simile a I lunghi giorni delle aquile che a un film di guerra del XXI secolo, dal punto di vista della costruzione del racconto l’opera di Nolan si discosta dal modello del war movie classico. Dunkirk è tutt’altro che un film rétro. È stato sì girato in pellicola, ma con macchine da presa di ultima generazione, pensando alle proiezioni nelle super-tecnologiche sale Imax.
Se si confronta Dunkirk con Dunkerque di Leslie Norman (1958), una produzione inglese di taglio mainstream, la differenza è evidente. Come il film del 2017, anche quello del 1958 racconta l’evacuazione del British Expeditionary Force attraverso l’intreccio di destini individuali (i membri di un piccolo reparto di fanteria da un lato, i civili sulle barche da diporto dall’altro), che però si inseriscono in un più vasto contesto bellico-politico, illustrato grazie all’uso di cinegiornali d’epoca e mappe animate, con diverse scene dove si analizzano l’andamento delle operazioni militari e i sentimenti contrastanti del fronte interno britannico. Nel film di Nolan, invece, questo background è quasi totalmente assente. La spiegazione storica si risolve nei primi minuti, con una didascalia molto sintetica e la cartina, riprodotta sui manifestini di propaganda lanciati dai tedeschi, che mostra la posizione delle truppe alleate chiuse nella sacca di Dunkerque. Dopo di che, il film si concentra sui destini di alcuni personaggi senza più preoccuparsi del quadro generale, che – a parte qualche battuta di Kenneth Branagh nei panni di un ammiraglio – riemerge in modo esplicito solo nel finale, quando uno dei soldati scampati alla catastrofe (Fionn Whitehead) legge dal giornale ad alta voce il discorso pronunciato da Churchill all’indomani del cosiddetto miracolo di Dunkerque (è il discorso leggendario nel quale il primo ministro giurava che l’impero britannico non si sarebbe piegato a nessun costo: “Combatteremo nei campi e nelle strade, combatteremo sulle colline; non ci arrenderemo mai…”).
Non solo il film si concentra su un ristretto numero di percorsi individuali, senza porsi il problema del contesto, ma il modo in cui Nolan mette in scena questi destini è molto lontano dallo stile canonico del war movie. Se da un lato il film è ricco di scene di azione, esso presenta anche molti momenti di stasi, scene dove il movimento è ridotto al minimo e i personaggi parlano per frasi brevi, o addirittura tacciono. All’inizio del viaggio del signor Dawson (Mark Rylance), che va ad affrontare la morte in cravatta e gilet, in compagnia di due ragazzini (il figlio e un amico di questi), il motoscafo si imbatte in una nave militare carica di soldati.
L’incontro avviene nel silenzio assoluto. I militari schierati sul ponte fissano con sguardo vuoto lo strano equipaggio che sta facendo rotta verso la spiaggia infernale che loro hanno appena lasciato. Evidentemente, non riescono neppure a pensare che qualcuno, meno che mai dei civili, possa provare ad avventurarsi laggiù. A loro volta, Dawson e i ragazzi osservano muti quei volti carichi di stanchezza e paura, immaginando che sulla sponda verso cui stanno navigando si assiepino migliaia di creature dallo stesso aspetto infelice. È un incontro di gusto onirico, che ricorda certi momenti della risalita del fiume di Apocalypse Now (1979). Il commento musicale minimalista, con suoni che si confondono con i rumori, ne fa quasi una scena da film di fantascienza.
I soldati, la barca, i piloti
Allo stesso modo, anche nella sequenza d’apertura, quando Fionn Whitehead raggiunge la spiaggia, dopo essere sfuggito ai tedeschi, si trova di fonte a uno spettacolo inatteso e surreale: una distesa di sabbia sterminata, immersa in una luce abbagliante, piena di uomini disposti in file ordinate, che attendono in silenzio con gli occhi fissi su un mare vuoto. Aspettano la Royal Navy, ma se invece apparisse un’astronave non ce ne stupiremmo troppo. Certo, è anche la situazione in sé della sacca di Dunkerque – un’“ultima spiaggia” affollata di disperati scampati a una catastrofe – a presentarsi a una rappresentazione con venature fantascientifiche. Tant’è che anche nel Dunkirk del 1958, così come in un altro film – francese – dedicato a quella vicenda, Week-end a Zuydcoote (1964), diretto da Henri Verneuil e interpretato da Jean-Paul Belmondo, in certi momenti troviamo immagini e situazioni da racconto ucronico: il collasso dell’ordine sociale, la massa di fuggiaschi che vaga in un paesaggio ingombro di macerie, le file di automezzi abbandonati lungo le strade. Ma per quanto una certa componente fantastica possa appartenere in modo strutturale alla vicenda di Dunkerque, essa risulta particolarmente in sintonia con la sensibilità di Nolan, che spesso si è confrontato con il genere fantascientifico e con i paradossi temporali. In Dunkirk, Nolan costruisce una struttura narrativa dove si intrecciano tre diverse vicende (i soldati sulla spiaggia, la barca di Dawson, i piloti), ciascuna delle quali ha però un’ampiezza cronologica diversa; rispettivamente, come indicano altrettante didascalie: una settimana, un giorno, un’ora. Il risultato è un flusso di immagini dove non sempre è facile collocare ogni frammento nello schema d’insieme. È un effetto “puzzle temporale” che costituisce una vera marca autoriale di Nolan, a partire dal film che lo ha lanciato, Memento (2000), e che si presta benissimo a esprimere il caos dell’esperienza della battaglia, un’esperienza in cui a prevalere è il tempo interiore del combattente, sganciato dalla cronologia oggettiva.
Ma se da un lato Dunkirk rifiuta il racconto storico di impianto tradizionale, scegliendo la strada, ardua e affascinante, dell’ibridazione tra war movie e fantascienza, ciò non significa che il film sia inconsapevole della complessità degli avvenimenti politico-militari di cui ci offre una rappresentazione così personale, e apparentemente reticente. Si pensi, ad esempio, al personaggio del signor Dawson. Questi parte alla volta della costa francese perché è un buon cittadino britannico determinato a fare la sua parte. In questo, egli è l’erede del personaggio interpretato da Walter Pidgeon in La signora Miniver (1942) di William Wyler, vero e proprio Urtext quando si parla di rappresentazione cinematografica del miracolo di Dunkerque (il film è americano, ma gli americani del 1942 avevano contezza di quegli avvenimenti). Però nel personaggio di Dawson c’è anche qualcos’altro, qualcosa di oscuro, che non è semplicemente il dolore per la morte del figlio maggiore, pilota della Raf caduto nelle prime settimane del conflitto. Quando Dawson compie il suo primo salvataggio, raccogliendo un ufficiale (Cillian Murphy) che trova seduto in cima alla poppa di una nave che spunta assurdamente dalle acque dell’Atlantico, un po’ come la Statua della libertà nel finale del Pianeta delle scimmie (1968), l’incontro non è affatto semplice. Il naufrago non parla e reagisce con violenza alla gentilezza dei suoi salvatori, che cercano di fargli bere del tè caldo. I due ragazzi sono turbati da quelle reazioni irrazionali, mentre Dawson non sembra per niente stupito. L’espressione che usa per spiegare al figlio quel comportante è assai rivelatrice: shell shock. Il film non ci dice nulla a proposito del passato di Dawson, ma la sua età e la dimestichezza che dimostra con lo “shock da granata” ci fanno supporre che sia un reduce della Grande guerra. Attraverso una narrazione e una messa in scena molto personali, e apparentemente lontani dalle forme del racconto storico, Nolan riesce a parlare con profonda intelligenza della tragedia che studiosi e protagonisti di quei fatti (e tra di essi Winston Churchill) hanno definito la guerra dei trent’anni del XX secolo.
giaime.alonge@unito.it
G Alonge insegna storia del cinema all’Università di Torino