Nicolas Winding Refn – The Neon Demon

Talento visionario di un regista anticonvenzionale

recensione di Francesco Pettinari

Nicolas Winding Refn
THE NEON DEMON
con Elle Fanning, Jena Malone, Bella Heathcote, Keanu Reeves, Christina Hendricks, Desmond Harrington
Usa, Francia 2016

the-neon-demon-posterDistribuito da Koch Media insieme a IIF (Italian International Film) della famiglia Lucisano che ormai ha, si può dire, adottato il regista, è arrivato nelle nostre sale – e contemporaneamente in Francia, Danimarca, Svezia, Norvegia e in Finlandia – The Neon Demon, il nuovo film di Nicolas Winding Refn. In corsa per la Palma d’oro alla recente edizione del festival di Cannes, il film ha ricevuto un’accoglienza piuttosto tiepida. Il trailer sembrava in effetti confermare molte critiche, ma la visione completa dell’opera, a giudizio di chi scrive, smentisce, in larga misura se non del tutto, la negatività di molte recensioni. Non si tratta di un capolavoro, non è nemmeno un film adatto al grande pubblico, però offre molti spunti di riflessione se lo si considera come una tappa del percorso artistico di un outsider.
Quando un artista raggiunge un largo consenso con un’opera è molto difficile, certo non impossibile, che poi riesca a fare accettare un percorso che si allontana dal lavoro che gli ha regalato la fama.
Nicolas Winding Refn, danese, classe 1970, è approdato agli onori del successo mondiale nel 2011 con Drive, premiato per la miglior regia a Cannes; non era un’opera prima, c’è tutta una filmografia precedente del regista, in gran parte inedita o comunque poco nota in Italia: la trilogia Pusher (1996-2004-2005), Bleeder (1999), Fear X (2003), Bronson (2008, interpretato magistralmente da Tom Hardy nei panni del criminale inglese Michael Gordon Peterson), Walhalla Rising (2009), opere che parlano di violenza, di droga, di criminalità, e che presentano impianti formali fuori dal consueto, per cui non meraviglia che non abbiano incontrato i favori della distribuzione, per contro  hanno fatto guadagnare un nutrito seguito di cinefili al regista.

Drive ha allargato al grande pubblico la conoscenza di questo cineasta. Come mai? Perché in Drive Refn ha trovato l’equilibrio di diversi componenti – violenza e sentimenti, e soprattutto tra narrazione e stile, tra la trama e la messa in scena. Due anni dopo, nel 2013, è nuovamente in concorso a Cannes, con lo stesso attore protagonista, Ryan Gosling, e spiazza tutti con Only God forgives, dove, come nelle opere precedenti a Drive, la ricerca formale si impone sulla storia, e via quindi al congelamento delle emozioni – in un film con una componente altamente melodrammatica – e con l’indugiare delle scene sui momenti di vuoto, prima di quella che avrebbe dovuto essere l’azione spettacolare legata ai combattimenti delle arti marziali. Come non dire che sarebbe stato invece molto facile – e anche molto scontato – per Refn, dopo il successo ottenuto, rifare Drive, allinearsi a quell’operazione ormai consueta alla produzione di tanto cinema contemporaneo, tutta giocata su realizzare prequel e sequel di un’opera che ha registrato ottimi incassi.  Ebbene, The Neon Demon dimostra la volontà, da parte del regista, di proseguire su una strada di ricerca formale che non si preoccupa delle aspettative del grande pubblico, del successo al botteghino, e neanche del consenso di certa critica – e questo ha già un grande valore.

Il talento visionario di Refn

The Neon Demon è quindi un’opera dove è fortissimo lo scarto tra fabula e intreccio, tra il che cosa e il come della narrazione; non solo, c’è di più: stile e tema del film – l’estetismo nell’ambito della moda – coincidono, sono inscindibili. La sinossi, la sintesi della trama, non rende per nulla giustizia all’opera se è sganciata dalla considerazione della messa in scena.

In ogni caso, una storia, per quanto esile, c’è: Jesse (Elle Fanning) è una ragazza di sedici anni che dalla Georgia approda a Los Angeles: sa di essere carina, sa di possedere quel dono molto prezioso che è la bellezza naturale, e tenta la fortuna nel mondo della moda. Viene subito notata da tutti gli addetti ai lavori – fotografi, truccatrici, stilisti, le altre modelle -, e la sua bellezza – il suo essere un diamante in un mondo di vetro, come dichiara un personaggio – scatena una vera e propria fame, una forma di vampirismo prima e  di cannibalismo poi, che finirà per far sì che il corpo di Jesse diventi davvero cibo, in una perfetta coincidenza di senso letterale e di senso metaforico. In tutto questo, ci sono anche elementi di racconto più convenzionali: per esempio, la vicenda sentimentale che non va in porto tra Jesse e un fotografo, il quale come lei, è in cerca di fortuna e di affermazione, è quello che le ha scattato le prime polaroid – in quello che è il potentissimo incipit del film – ed è anche quello che è interessato a lei come persona, che la aiuta quando è in pericolo, e che viene liquidato quando diventa un ostacolo per il suo successo: “Vuoi essere come loro?” le domanda lui, e Jesse risponde: “Non sono io che voglio essere come loro, sono loro che vogliono essere come me” – una frase che ben sintetizza il senso del film. C’è anche Keanu Reeves in un ruolo marginale, quello di direttore dello squallido motel dove alloggia Jesse. Così come non manca la scena inquietante: quella in cui la truccatrice – la quale trucca le modelle ma anche i cadaveri – attratta e rifiutata da Jesse, si produce in una performance che fa confluire necrofilia e autoerotismo.

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Ma il valore del film sta tutto nella conferma del talento visionario di Refn, una visionarietà che ammanta il film e permette al regista di piegare la trama a slittamenti di genere e di senso che vanno dal thriller all’horror, dallo sci-fi al racconto gotico; giocoforza, i nessi tra le varie sequenze non sono sempre all’insegna della chiarezza o della coerenza; lo sviluppo del tempo filmico si configura come un viaggio onirico che alterna segmenti di racconto realistico a esplosioni di incubo e pura visionarietà. Questi passaggi sono bruschi, ellittici, all’insegna di un processo di sottrazione eccessivo, ma regalano allo spettatore che si abbandona alla visione momenti di grande cinema. La regia procede per movimenti lentissimi della macchina da presa o in orizzontale o verso la profondità di campo, e insiste sulla fissità dello sguardo, su inquadrature tenute volutamente molto a lungo. Da segnalare il contrasto, padroneggiato con grande maestria, del diverso trattamento degli ambienti interni e di quelli esterni: cambia tutto – la luce, il tono, il significato – ma resta inalterata la potenza e la qualità delle immagini, e questo di per sé è già più che sufficiente a giustificare la presenza del film nel più prestigioso concorso festivaliero. Tutta la squadra tecnica merita una menzione, in modo particolare la splendida fotografia di Natasha Braier e la colonna musicale curata da Cliff Martinez che contribuisce a rafforzare l’andamento ipnotico della visione.

Un film che guarda al futuro

Che senso ha parlare di delirio di onnipotenza? O di megalomania incontrollata? Certo, Refn è anche un regista modaiolo, ha realizzato spot per marchi di lusso come Gucci, dove si sono viste immagini splendide e luci raffinatissime. The Neon Demon si lega senza dubbio anche a quelle esperienze, e non c’è ragione di attaccare il film paragonandolo a uno spot lungo centodiciassette minuti, o insinuare che, guardandolo, sembra di sfogliare una rivista di moda – sono commenti davvero banali, e non degni di un critico. Altri attacchi sono arrivati sul fronte delle citazioni: si sono fatti i nomi di David Lynch, di Dario Argento, ma anche di Mario Bava e di Brian De Palma: e va benissimo, data la tastiera di generi che il film chiama in causa; e se ne possono anche aggiungere altri: rispetto alla moltitudine di generi, viene in mente Gone Girl – L’amore bugiardo di David Fincher; l’astrazione degli spazi – specie i set fotografici – fanno pensare a Under the Skin di Jonathan Glazer; mentre alcune sequenze fanno pensare a nomi della videoarte come Vanessa Beecroft – la scena del casting per la sfilata -; come Bill Viola – la sequenza della piscina o, in generale, un certo gusto per la rarefazione. Che ci sia una dose massiccia di narcisismo e di autocompiacimento nel contemplare il proprio lavoro – la durata di alcune inquadrature di cui si è detto – è fuori di dubbio: d’altra parte, chi può contestate la componente narcisistica dell’atto creativo? Questo film – come tutto il cinema di Refn – aderisce a un’idea di cinema che trascende del tutto il concetto di visione come appropriazione di una storia, magari anche edificante, didascalica, e perché no, consolatoria. Refn pensa e guarda al futuro, alla via che, con l’avvento del digitale e delle risorse tecnologiche connesse, mette del tutto in secondo piano elementi come la trama. La pericolosità sociale legata all’ossessione del culto della bellezza, indagata dalla prospettiva della vacuità e dell’aleatorietà dell’universo della moda, dove tutto non può che essere superficie e luccichio, può anche non passare dallo sdegno morale: Refn mette in campo un sistema di segni – in sostituzione di una trama convenzionale – che, in maniera perversa e inquietante, si autocelebra e si autodenuncia nello stesso tempo, servendosi del candore virginale di una ragazza e facendola diventare cibo sacrificale per corpi che ormai sono soltanto terminali umani e manufatti della chirurgia estetica.

Vogliamo concludere all’insegna del futuro: proprio a ridosso del festival di Cannes, è stato annunciato il nuovo progetto cinematografico del regista: dopo una serie televisiva, si dedicherà al remake di un film italiano, Cosa avete fatto a Solange? di Massimo Dallamano, una vicenda ambientata in un collegio dove un professore è accusato dell’omicidio di una studentessa, un’opera del 1972, segnata dal divieto di visione ai minori di diciotto anni; tra i produttori, Lucisano Media Group. Non resta che attendere, con grande impazienza, i nuovi esiti della ricerca espressiva e visionaria di questo grande talento che è ormai un marchio di fabbrica: NWR.

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F Pettinari è critico cinematografico