Uno stupefacente pericoloso naturalismo
recensione di Giuseppe Dardanello
dal numero di maggio 2017
Tomaso Montanari
LA LIBERTÀ DI BERNINI
La sovranità dell’artista e le regole del potere
pp. XXII-325, € 42
Einaudi, Torino 2016
“Giovan Pietro Bellori non amava Bernini”. L’incipit scopre le carte su una chiave di lettura cruciale per la ricostruzione della straordinaria esperienza dell’artista che “il più importante storico dell’arte del Seicento” escluse programmaticamente di raccontare. Il nucleo primigenio della storiografia berniniana – le vite di Filippo Baldinucci e di Domenico Bernini, così strategicamente orchestrate da Gian Lorenzo da consentire di rileggerle come una vera e propria autobiografia – viene fatto reagire con il variegato palinsesto della produzione letteraria secentesca, in cui Montanari, grazie a un’invidiabile dimestichezza con gli strumenti di analisi del testo, va a tracciare l’uso strumentale della parola messo in atto da Bernini per ricostruire la narrazione della propria vita. L’angolatura di osservazione è data dall’“impegno di Bernini ottantenne nel ricordare il Bernini trentenne, e le sue intenzioni di rappresentarlo” riesaminando l’intero corso della propria esistenza alla luce di un presente dove la politica di revisione del nepotismo di Innocenzo XI Odescalchi andava a minare i gangli vitali del suo rapporto esclusivo con il papato. Nel percorso di rielaborazione delle sconfitte di una esperienza vissuta in tensione conflittuale costante con il potere, la prospettiva ermeneutica di Montanari arriva a rovesciare le opinioni critiche su cui si è assestata la moderna storiografia artistica: mette in discussione la linea di lettura Longhi-Briganti, quando si marcava la distanza tra il Barocco di Bernini e Cortona, rivolto al presente e conservatore, e il ‘naturale’ aperto al futuro di Caravaggio, all’origine della modernità; e l’interpretazione paradigmatica del felice rapporto artista-committente, in perfetta armonia con la società del tempo, che Francis Haskell vedeva nell’incontro Bernini-Maffeo Barberini.
Distanze da colmare e relazioni da affrontare in termini contestuali più complessi e contraddittori, a partire dalla tesi del libro, su cui si impernia il conflitto tra “la sovranità dell’artista e le regole del potere”: l’atto di abiura cui Gian Lorenzo sarebbe stato costretto nel 1622 per disinnescare la portata eversiva della propria sovrumana capacità di trasformare il marmo in natura viva accettando l’apposizione sul piedistallo del suo capolavoro – l’Apollo e Dafne commissionato dal cardinal Scipione Borghese – del distico composto da Maffeo Barberini per giustificare “una figura troppo nuda per stare nella casa di un cardinale”. Un Bernini sul punto di rischiare la fine di Marino e di Galileo (e più in là negli anni la messa all’indice di Borromini “gotico”) salvato dall’intervento del futuro papa che ne avrebbe in tal modo ipotecato l’intera carriera di scultore, diventandone sì il regista della fortuna, ma costringendolo a rinunciare al naturale talento per l’attualizzazione delle favole antiche in seducenti figure di carne e ossa.
Tutta la successiva attività di Gian Lorenzo è interpretata a ridosso del modello introspettivo-psicologico della cultura gesuitico-agostiniana: l’intenzione di riscatto per aver ceduto alle pressioni di Urbano VIII che l’aveva distolto dal “maneggiare il marmo in quel modo” (Domenico Bernini). L’investitura ad architetto papale interverrebbe allora come risarcimento per avergli “sbarrato la strada del virtuosismo realistico ed erotico della scultura in marmo”, offrendogli in cambio la “consacrazione ad artista universale. Pittore, scultore, architetto: proprio come Michelangelo”. Una condizione di esposizione che contribuirà allo scottante insuccesso del campanile di San Pietro: l’abbattimento del terzo ordine, voluto non nel 1646 da Innocenzo X Pamphilj, ma bensì nel 1641 e dallo stesso papa che lo aveva fatto architetto della Fabbrica. Morto Urbano VIII, Bernini riprende in mano lo scalpello per riconquistare la propria libertà, si fa committente di sé stesso e con la Verità scoperta dal Tempo scolpisce una monumentale opera allegorica per rivendicare la sovranità dell’artista sull’invenzione e il concetto. Nella fitta rete di corrispondenze intessuta da Montanari, la “libertà” di Bernini si svela nella sequenza di scandalose congiunture che costellano la sua carriera: l’indecenza della nudità della Dafne salvata dal distico di Maffeo; la Santa Teresa transverberata che si abbandona all’incontro con l’angelo; l’eversivo ritratto dell’amante Costanza Bonarelli; la nudità esibita della Verità; e ancora una “femmina nuda”, la Carità nel monumento funebre di Alessandro VII, che fu subito costretto a ricoprire. Un percorso di fortissima tensione erotica unisce queste sculture in un’unica linea di sviluppo artistico “di stupefacente pericoloso naturalismo”.
Non è sempre agevole condividere fino in fondo l’interpretazione di alcuni nessi dell’ambivalente condizione di libertà in conflitto con le regole del potere del Bernini di Montanari. Certo è un libro ricco e generoso di idee, e indicatore estremamente sensibile alle contraddizioni della storia dell’arte oggi, con cui va a confrontarsi la coraggiosa presa di posizione dell’autore: una impressionante dilatazione dello spettro di analisi sulle relazioni tra l’artista e la società contemporanea, che prendendo in seria considerazione gli interrogativi che si sono posti alcuni storici dell’arte nord-americani (Shearman, Lavin, Levy, McPhee, Alpers) e chiamando in causa la necessità di lavorare per una “storia dell’arte integrale”, sollecita una urgente riflessione disciplinare da cui far emergere questioni colpevolmente trascurate, in primis la mancata considerazione della convergenza sul naturale di Bernini-Caravaggio, o l’elusione del problema Bernini-Annibale Carracci.
Alla domanda, cruciale, di come ripensare le catene dei rapporti figurativi senza escludere la scultura e affrontare il rapporto Bernini-Caravaggio in termini di avvicinamento, non di distanza, la risposta è una lettura del “naturalismo berniniano” sui parametri della teoria artistica del Seicento romano: come Mancini imputava a Caravaggio che “le sue figure erano sempre dei ritratti”, così nel climax di affetti dell’allegoria della Carità, la più rubensiana delle sue figure, Gian Lorenzo avrebbe trasposto il realismo dello scandaloso ritratto di Costanza Bonarelli. Le opere di Caravaggio e Bernini non sono dunque storie ma ritratti e nella loro sconcertante commistione di genere alto e basso va rintracciato “il nesso eversivo” che unisce i due artisti. Una relazione che viene rafforzata nel capitolo sulla spettacolarizzazione del lavoro artistico e la trasformazione dello studio in luogo pubblico, salotto mondano e insieme accademia aperta dove l’azione performativa di Bernini diventa capace di catalizzare l’opinione colta di tutta Europa. All’estremo opposto dello studio inaccessibile di Michelangelo, in quello spazio pubblico in inestricabile rapporto con il teatro berniniano – che ne fece il soggetto della rappresentazione di due commedie – l’azione artistica si consuma in una condizione di coinvolgimento totalizzante di tutti gli attori della produzione figurativa: l’artista, la committenza, il pubblico. La storia che si svolge nell’atelier diventa essa stessa la storia raccontata dall’opera d’arte, fissando un paradigma della modernità che passando per Caravaggio, Bernini, Velasquez, Rembrandt, Vermeer, arriva fino a Courbet, Manet, Picasso.
L’estensione di campo sulle attitudini performative dell’arte di Bernini, e le sue conseguenze sull’opinione pubblica, suffragata da un convincente intreccio di testimonianze parlanti, viene ricondotta anch’essa al giudizio di Bellori su Caravaggio, eversivo corruttore dei generi nel quotidiano rimescolamento delle carte messo in scena nel suo studio. Un parallelismo che diventa impervio seguire quando l’identità delle condizioni dell’operare artistico viene interpretata puntando l’obiettivo sul Bernini pittore: nelle occasioni colte nello studio – i ritratti di giovani collaboratori, o il drappo allestito per lo sfondo di un’accademia di nudo che finisce per suggerire il soggetto del Cristo deriso, l’unico quadro a figura intera di Gian Lorenzo – l’autore vede le prove più stringenti del “naturalismo caravaggesco” di Bernini. Ma i mezzi espressivi del Bernini pittore si assestano a un livello non paragonabile a quello del Bernini scultore e le ragioni del suo altrimenti libero rapporto con la natura – e dunque anche con l’opera di Caravaggio –andranno ostinatamente cercate nella potenza immaginativa della sua scultura nel ricreare una verità diversamente scalata sul dato naturale. Nella stimolante proposta di inversione di rotta avanzata da Montanari, quando le tentazioni di una colta attrezzatura ermeneutica possono correre il rischio di prevalere, l’onere della prova non potrà che essere ancora affidato all’evidenza delle opere e dello stile.
giuseppe.dardanello@unito.it
G Dardanello insegna storia dell’arte moderna all’Università di Torino
La libertà di Bernini è anche un viaggio di approfondimento nella vita e nell’arte di Gian Lorenzo Bernini in 8 episodi curati da Tomaso Montanari per la Rai.
Episodio 1: Gli inizi (1598-1618); Episodio 2 – L’esplosione (1618-1625); Episodio 3 – Il padron del mondo (1623-1644); Episodio 4: Il colore del marmo (1623-1640); Episodio 5: Bernini mago (1644-1655); Episodio 6: Bernini e la città (1655-1669); Episodio 7: Bernini fuori Roma (1651-1669); Episodio 8: Bernini visionario (1667-1680).