Camminar guardando, 46
di Alessandro Morandotti
dal numero di dicembre 2018
Due grandi mostre hanno ora celebrato Tintoretto a Venezia. Una, su tutto Tintoretto, a Palazzo Ducale (Tintoretto 1519-1594, a cura di Robert Echols e Frederick Ilchman, fino al 6 gennaio; da marzo alla National Gallery di Washington) è punteggiata da indiscutibili capolavori e articolata per grandi temi (di carattere iconografico e più raramente legati ai sistemi di produzione della bottega dell’artista), secondo criteri apparentemente di facile presa sul pubblico. L’altra, sulla giovinezza di Tintoretto, alle Gallerie dell’Accademia (Il giovane Tintoretto, a cura di Roberta Battaglia, Paola Marini e Vittoria Romani, fino al 6 gennaio) è una mostra più raccolta, altrettanto piena di capolavori, tesa a restituire il contesto della Venezia in cui si forma il pittore, tra la metà degli anni trenta e i primi anni quaranta; si passano in rassegna dipinti, disegni, incisioni, sculture dei principali artisti del tempo nonché le opere di Tintoretto dai suoi esordi come pittore autonomo intorno al 1538 fino alla consacrazione pubblica nel 1548 con il Miracolo dello schiavo per la Scuola Grande di San Marco (oggi alle Gallerie dell’Accademia).
Nonostante i cataloghi siano prodotti dalla stessa casa editrice (Marsilio, rispettivamente pp. XVII-291, € 53 e pp. 237, € 35, entrambe Venezia 2018) e le mostre siano aperte contestualmente a poche centinaia di metri una dall’altra, il metodo di lavoro che le sostiene è agli antipodi. Devo subito dire che il mio cuore ha battuto più forte nelle sale dell’Accademia, perché lì si assisteva alla mirabile costruzione di un racconto in cui comandano le ragioni dello stile e della cronologia, secondo linee di ricerca filologica per le quali si cercano risposte sul vivo delle opere che colmino almeno in parte le nostre lacune di conoscenza documentaria sull’avvio di uno dei grandi pittori della tradizione veneziana del Cinquecento, orfano persino di un maestro documentato.
Il punto di partenza è la rimeditazione di un libro fondativo di Rodolfo Pallucchini (La giovinezza di Tintoretto, 1950), attraverso il quale era emersa con evidenza la riflessione del giovane Tintoretto, e di molti altri maestri attivi a Venezia in quel giro d’anni a cavallo tra quarto e quinto decennio del Cinquecento, sulle novità della Maniera in Italia centrale così come si erano andate diffondendo soprattutto attraverso i modelli (veicolati perlopiù dalle traduzioni incise) di Michelangelo, Raffaello, Parmigianino, Francesco Salviati, ma anche attraverso la fisica presenza di artisti arrivati a Venezia dopo le esperienze tra Firenze e Roma: da Pordenone a Jacopo Sansovino, da Francesco Salviati a Giuseppe Porta.
Ripartire dal libro di Pallucchini con uno sguardo libero dalle numerose revisioni critiche, operate in questi ultimi decenni su quello studio, si è dimostrato un esercizio estremamente utile ed equilibrato. Il gruppo di lavoro della mostra dell’Accademia ha avuto la capacità di non farsi travolgere dalle novità, spesso solo presunte, degli studi degli ultimi decenni, studi che hanno fatto emergere dall’ombra, come un vero alter ego del giovane Tintoretto, il modesto Giovanni Galizzi, documentato da due opere firmate (e datate 1543 e 1548) che ne attestano le qualità artistiche un poco impacciate e al quale quindi difficilmente, a titolo d’esempio, può spettare un’opera significativa quale la Sacra Famiglia con santa Elisabetta e san Giovannino del Wallraf-Richartz Museum di Colonia (esposta a Venezia con la riacquisita assegnazione a Tintoretto).
Si trattava di fare i conti tra l’altro non solo con la letteratura “revisionista” più recente, ma anche con il giudizio sprezzante di un grande maestro degli studi come Roberto Longhi nel suo Viatico per la pittura veneziana del 1946; lì Tintoretto, a confronto con i più amati Tiziano e Veronese, viene ridimensionato e considerato alla stregua di un mestierante e per questo persino polemicamente avvicinato al Galizzi, con le conseguenti ricadute di questo accostamento nella prospettiva degli studi recenti.
In catalogo, il bellissimo saggio di Vittoria Romani ripercorre con grande intelligenza critica ed equilibrio di giudizio la storia degli studi che hanno riguardato Tintoretto nel Novecento e nei primi tempi del nuovo secolo, oltre a ridiscutere la sua giovinezza secondo un puntuale disegno critico che costituisce l’ossatura della mostra.
Il giovane Tintoretto alle Gallerie dell’Accademia
Visitando l’esposizione dell’Accademia, con i due blocchi di opere ben distinte – la situazione artistica veneziana negli anni di formazione di Tintoretto; il giovane Tintoretto – mi era venuta inizialmente l’idea che sarebbe stato forse utile provare ad accostare le opere di Tintoretto a quelle dei suoi immediati precedenti, maestri o compagni di strada, presentati in apertura: da Tiziano a Bonifacio Veronese, da Pordenone, a Paris Bordon, a Schiavone, a Lambert Sustris, a Francesco Salviati, a Giuseppe Porta Salviati. Ma credo sia stata un’ottima idea evitare di buttarlo “nella mischia”, anche perché i quadri più antichi del suo catalogo sono abbastanza diversi tra di loro, legati come sono a una fase di sperimentazione e di messa a punto della propria lingua, e sarebbe stato così necessario avvicinare a compagni distinti gli esemplari più antichi della produzione di Tintoretto creando la sensazione di uno stile inevitabilmente ondivago.
La mostra prende forma attorno a poco più di 50 numeri, ed è magistralmente allestita negli spazi dedicati alle esposizioni all’interno delle Gallerie.
Partendo dal quadro più antico accertato dalla firma e dalla data 1540, la Sacra Conversazione Molin, i curatori hanno cercato di capire cosa possa essere venuto prima e cosa dopo quel quadro, apparentemente quasi un unicum per il ritmo controllato e dolcemente ondeggiante, per la stesura più rifinita, senza quegli effetti di colore graffiato dagli sfregazzi del pennello così tipico nella sua produzione; si tratta del primo vero esercizio sui modelli dell’Italia centrale, in cui è chiaro il dialogo con Pordenone, che importa presto a Venezia il michelangiolismo, e con Jacopo Sansovino, artisti a cui rimandano il movimento danzante dei santi e i ritmi serrati della composizione.
A monte di questa esperienza stanno le riflessioni del pittore sulla perduta Battaglia di Cadore che Tiziano aveva messo in opera nel 1538 in Palazzo Ducale a Venezia, di cui esiste un grande disegno preparatorio al Louvre un poco più antico (esposto in mostra). La Conversione di San Paolo della National Gallery di Washington e l’Adorazione dei Magi del Prado restituiscono, nello spazio dilatato, nella verità meteorologica, nel frenetico movimento delle figure, l’impressione di quell’invenzione tizianesca durante la formazione di Tintoretto, prima del 1540.
Poi si giunge all’indimenticabile colpo di scena, che mette in dialogo, in un ideale cannocchiale, due opere esposte in due ambienti diversi: l’incredibile Disputa con i dottori del Museo del Duomo di Milano e il poco più tardo Miracolo dello Schiavo dell’Accademia.
In questi due quadri, la mobilità delle luci, le accelerazioni prospettiche, la rilettura molto personale dei modelli michelangioleschi aprono a una teatralità nuova, pervasiva, matura. Dove il senso del colore tutto dentro la tradizione veneziana si impasta con il plasticismo del grande artista fiorentino. Vedere in chiusura di mostra il Miracolo dello schiavo accanto a un disegno di Michelangelo per il Giorno, a uno studio dello stesso Tintoretto dal Crepuscolo, fianco a fianco con due lastre di Sansovino provenienti dal coro della Basilica di San Marco permette di capire il progetto molto lucido dell’esposizione.
Tintoretto 1519 – 1594 a Palazzo Ducale
Più svagata e meno articolata la monografica secca di Palazzo Ducale, dove la struttura per temi diventa un’arma a doppio taglio, come sempre avviene in questi casi. Da una parte infatti questa idea progettuale permette di sostituire facilmente un’opera non concessa per il prestito con un’altra affine per simile argomento, ma dall’altra può lasciare la sensazione nel visitatore che i quadri di una sezione possano tranquillamente essere visti in un’altra, dando così l’impressione di una certa casualità del racconto. A titolo d’esempio è quanto avviene nella sala in cui, seguendo un giudizio di Pietro Aretino, Tintoretto viene celebrato per quelle opere che restituiscono “il disegno di Michelangelo e il colore di Tiziano”, e vi si trovano esposti esemplari che sarebbero potuti confluire senza colpo ferire nella sala dedicata ai “soggetti mitologici” o in quella destinata a ripercorrere le “narrazioni sacre”, vale a dire quegli argomenti di storia con i quali l’artista si misurò tutta la vita. Credo che il pubblico sia ormai abbastanza accorto per capire quale fosse, tra le due “personali” veneziane, quella da premiare almeno con una seconda visita.
alessandro.morandotti@unito.it
A Morandotti insegna storia dell’arte moderna all’Università di Torino