Sperimentatore fuori dai canoni, dottissimo e carpentiere
recensione di Andrea De Marchi
dal numero di febbraio 2018
Alessandro Bagnoli, Roberto Bartalini e Max Seidel (a cura di)
AMBROGIO LORENZETTI
pp. 512, 300 ill., € 39
Silvana, Cinisello Balsamo MI 2017
La mostra organizzata nei locali dello Spedale di Santa Maria della Scala a Siena (in corso fino all’8 aprile), dal titolo secco Ambrogio Lorenzetti, è una monografica pura. In una parata impressionante si è avuta l’opportunità unica e irripetibile di vedere in sfilata quasi tutte le maggiori tavole del maestro senese, più vari frammenti di affreschi dal capitolo di San Francesco, in collaborazione col fratello Pietro (per inciso, la cosiddetta Madonna dolente della National Gallery di Londra, strappata da un quadrilobo del fregio superiore, non è ripetizione di quanto già ritratto ai piedi del Calvario, ma una Madonna annunciata), e i famosi murali di Montesiepi. Un pittore che lungo un trentennio (è attestato la prima volta con la Madonna di Vico l’Abate del 1319 e a Firenze nel 1321, morì nella peste nera del 1348) ci sorprende per la capacità instancabile di variare le invenzioni, i tipi, le composizioni, gli ornati e le stesse applicazioni tecniche, poteva ben meritare un “a solo”. Il ponderoso catalogo, sontuosamente illustrato, sostanzia con ricchissimi materiali la complessità delle problematiche che ogni opera superstite di questo grandissimo maestro involve.
La genialità con cui egli seppe coniugare, nella Sala della Pace in Palazzo pubblico, uno spaccato di vita e allegorie parlanti, immediatezza e dottrina, all’insegna di una delle celebrazioni politiche più pervasive e spettacolari che siano mai state inventate, rischia di monopolizzare la sua immagine più vulgata. Gli affreschi civici si affacciano in più punti del catalogo, ma la dominante carrellata di pale d’altare e tavole di devozione induce a scoprire quanto Ambrogio sia stato sperimentatore fuori dai canoni, non solo e non tanto come mero “iconografo”, tale da irritare Bernard Berenson che vedeva nelle sue opere “poco più che sciarade dipinte”, quanto come inventore di traduzioni palpabili e immagini folgoranti per narrazioni e simbologie mai banali. “Altrimenti dotto che nessuno degli altri”, lo diceva Lorenzo Ghiberti, che lo anteponeva allo stesso Simone Martini e vi individuava quasi un suo ideale alter ego. La “dottrina” che Ghiberti ammirava era in primis la capacità di governare narrazioni complesse, la pittura di “historia” in età ancora pre-umanistica, e quella di cogliere fenomeni rari della natura, ma più ancora le perturbazioni dell’animo che li accompagnavano. Bene lo descrive al principio del Seicento Giulio Mancini, esaltando la “tempesta” nel Martirio dei francescani a Tana, nel chiostro di San Francesco, che aveva colpito Ghiberti, non tanto per l’illusione della varietà meterologica, quanto per le reazioni emotive connesse (“espresse molto bene gli affetti, come si vede … in quel martirio al quale sopraviene una tempesta la qual, fuggendola, quelle figure dimostran spavento e moto”).
Ambrogio ci ha regalato fotogrammi lampeggianti, attimi di intima verità nei gruppi delle Madonne col bambino, ma pure nel ritratto umoristico dei cardinali dubbiosi e distratti, nella Professione di San Ludovico di Tolosa affrescata per il capitolo di San Francesco, ovvero dei barcaioli affannati, in un angolo del Miracolo delle navi granarie, nelle Storie di San Nicola ora agli Uffizi. I restauri hanno permesso talvolta di entrare nel laboratorio dell’artista: nelle tavole degli Uffizi, ad esempio, nel San Nicola ordinato vescovo di Mira, sono state individuate le tre arcate incise che in un primo progetto dovevano definire l’accesso di una cripta semipogea (bene sarebbe un giorno disegnare e documentare questi pentimenti). A Montesiepi vistose correzioni, nell’Annunciata prima spaventata e poi più composta, sono state probabilmente imposte dai committenti (non credo però che a correggere sia stato Niccolò di Segna, perché manca il suo chiaroscuro più schematico di retaggio duccesco, quanto lo stesso Ambrogio, forse un po’ di mala voglia). Fra tutti i restauri spicca quello del trittico del Museo di Asciano, già sull’altare di San Michele a Monteoliveto Maggiore, condotto anni fa dall’Opificio delle pietre dure. Levando la riquadratura cinquecentesca, che pure era intervento di notevole qualità, si è capita la connessione organica tra il grande pannello quadrato con San Michele che sconfigge il drago e la soprastante Madonna col Bambino entro slanciata triloba. Tanto eterodosso era l’accostamento che fino a tempi recenti si era sospettato un pastiche di elementi eterogenei. Nella riscoperta cornice argentata del San Michele sono emerse invece le losanghe che accompagnavano perduti listelli obliqui di raccordo fra i due elementi.
Ambrogio era un designer eccezionale delle stesse carpenterie, ripensate fuori dagli standard a seconda della specificità dei soggetti e delle destinazioni. Esempio mirabile del rapporto originale tra forma e funzione è il polittico per le monache agostiniane di Santa Marta, organizzato attorno alla grata monialium, attraverso cui le sorelle potevano traguardare dal retrostante coro l’elevazione eucaristica, come ha intuito e dimostrato Emanuele Zappasodi in un importante articolo apparso su “Nuovi studi” nel 2013: la sua ricostruzione è stata messa in opera nell’allestimento della mostra e meriterebbe di essere riproposta nella stessa presentazione museale (non so perché nel catalogo si preferisca una provenienza dal minore monastero della Maddalena fuori porta Tufi, mentre la destinazione a Santa Marta è dimostrata dalla replica puntuale della Santa Marta, del San Giovanni evangelista e del Compianto in un polittico di Andrea di Bartolo, probabilmente destinato a duplicare l’ancona lorenzettiana per la chiesa interna delle monache).
Se Pietro Lorenzetti nella sua giovinezza era stato uno dei primi pittori moderni a raffigurare le ombre portate di un focolare e le stelle di un firmamento (nel Ciclo della passione ad Assisi), il fratello Ambrogio nella sua maturità si cimentò con l’evocazione dell’abbagliante luminosità di visioni soprannaturali. Tale è la luce giallognola, in gara con Taddeo Gaddi (Annuncio ai pastori e Annuncio ai magi della cappella Baroncelli), che incendia un paesaggio lunare, riverberandosi nel torrente inciso sulla lamina d’argento, nell’Adorazione dei pastori dell’anconetta mirabile dello Staedel, riconosciuta come suo capolavoro da Carlo Volpe nel 1951. Tali sono gli effetti ottenuti con un uso sperimentale dello “sgraffito”, cioè raschiando con la punta di uno stiletto il colore steso sull’oro, su cui si sofferma Max Seidel in un saggio dedicato alla “metafisica della luce”: nei serafini dei pennacchi della Purificazione di Maria degli Uffizi, dipinta nel 1342 per l’altare di San Crescenzio in Duomo (una delle poche tavole capitali non convenute alla mostra), nei capelli della Carità nella Maestà di Massa Marittima e dell’Annunciata del 1344. Seidel contrappone il “puro e intenso palpito luminoso” dei serafini di Ambrogio alla corona angelica attorno alla colomba dello Spirito santo, nell’Annunciazione di Simone Martini e Lippo Memmi del 1333, per l’altare di Sant’Ansano in Duomo, pure interamente “a sgraffito” sull’oro, che avrebbe però carattere “calligrafico e descrittivo”. In Simone l’“incisione sulla preparazione oro non vivifica le figure, che rimang\ono statiche nella luminosità piana dello sfondo”: ma così appare ora, grazie alla rilettura “novecentesca” del restauro di Alfio Del Serra, che ha ridisegnato e chiuso le forme! Al contrario Ambrogio reagì proprio a quell’opera e all’innovativa sfida simoniana di far vibrare l’oro attraverso velature e incisioni. I saldi volumi della Piccola Maestà della Pinacoteca di Siena si dissolvono nell’aura di raggi incisi attorno alla Madonna col Bambino, che sfocano le forme degli angeli che fanno corona. Opportuna sarebbe stata allora la citazione a confronto della Crocefissione del Musée du Petit Palais di Avignone, capolavoro rovinato e solo perciò misconosciuto di Ambrogio (mai ricordato in tutto il catalogo), che costituiva un dittico con una domestica Sainte Famille d’humilité, individuata da Zeri quale suo pendant: anche in quel caso i raggi incisi intorno al nimbo di Cristo dissolvono la forma della stessa croce, suggerendo un effetto di barbaglio accecante.
andrea.demarchi@unifi.it
A De Marchi insegna storia dell’arte medievale all’Università di Firenze