La tabula rasa e la resilienza delle rovine
di Maria Beltramini
In questi mesi – anzi ormai anni – di guerra ai confini dell’Europa colpisce di nuovo la circostanza per cui il bersaglio della distruzione sono ancora (soprattutto?) le città: quello spazio costruito che, pur con le sue drammatiche forzature contemporanee, da secoli consideriamo una delle forme simboliche della civiltà. Lo sfregio, ce lo ha insegnato la Storia, è infatti più feroce e “didattico” quando si abbatte sui cittadini, e quando si compie il paradosso per cui le case, le strade e le piazze costruite nel tempo per accoglierli, proteggerli e rappresentarli vengono cancellate con loro o si trasformano in trappole mortali o gusci vuoti. Le centotrentuno città tedesche su cui caddero un milione di tonnellate di bombe durante la seconda guerra mondiale, Hiroshima e Nagasaki naturalmente, su su fino alle Torri Gemelle e oggi Mariupol’ o il paesaggio lunare di Gaza City ci parlano, pur in modi e con intensità diverse, di una volontà di devastazione che punta a sciogliere i legami di solidarietà annientando financo la memoria degli spazi della convivenza. Ed è solo il primo passo. Perché questo soprattutto fa paura di certe proposte di “pace”: certo la retorica del clean slate, la cancellazione di ciò che è stato, ma soprattutto il suo grottesco, impudico travestimento.
Le rovine ci devono viceversa essere care: esse pongono con urgenza “il tema dell’accettazione – o del rifiuto – della perdita (culturale, materiale, identitaria, psicologica)” che è alla base delle riflessioni sul loro “trattamento” e che può diventare “una forma di guarigione, ma una guarigione che conserva le tracce dell’opera nel tempo, compreso quello delle fratture della Storia”. Si entra qui nella questione, enorme, di Le patrimoine martyr, per richiamare – da una bibliografia amplissima e ramificata – il titolo del bel libro recente (Hermann, 2020) di Nicolas Detry da cui sono tratte le citazioni: un libro che guarda oltre la desolazione e cioè al tema della lacuna e del restauro dei monumenti storici dopo gli eventi bellici; ma vorremmo restare invece sulle rovine, la loro utilità, la loro lezione, la loro resilienza.
Dal punto di vista di una storica dell’architettura della prima età moderna, quando si pensa a rovine, si pensa istintivamente alle rovine di Roma, quelle in cui, se crediamo al biografo Antonio di Tuccio Manetti, si immerse per primo Filippo Brunelleschi per investigarle e distillare una strategia utile ad affrontare le sfide fiorentine; quelle percorse in lungo e in largo da Bramante “solitario e cogitativo” (Vasari); quelle che davanti agli occhi dolenti di Raffaello compongono “quasi el cadavero di quest’alma nobile cittade, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato”, pur lasciando visibile “la machina del tutto” (Lettera a Leone X, I, 4 e III, 3); quelle che Andrea Palladio, riandando col pensiero ancora dopo tanti anni alla sua prima visita dell’Urbe, ricorda con emozione esser state “di molto maggiore osservazione degne, ch’io non mi haveva prima pensato” (I Quattro Libri dell’Architettura, Venezia 1570, I, Proemio ai Lettori). Erano le rovine ineludibili della città più grande e famosa, la più popolosa che il mondo occidentale avesse conosciuto, che si erano andate accumulando e disfacendo a causa di invasioni, rivolte, guerre e abbandono, di cui rimanevano mute testimoni e custodi. Il crescente rispetto per tali reliquie, e il pathos generato dalla constatazione del loro destino, che a lungo fu di sfruttamento e rapina, affondano le loro radici in un topos letterario secolare che, con l’innesco dell’umanesimo e grazie alla volontà dei pontefici verrà messo al servizio di un progetto di rifondazione culturale, e dunque anche politico, approdando infine alla consapevolezza della necessità etica della tutela. Certo le rovine avevano cominciato subito a condizionare l’immagine della città e la vita possibile al suo interno e anzi, come ha spiegato molto bene Hendrik Dey (Roma nel Medioevo. Un nuovo profilo della città 400-1420, Viella, 2023, cfr. “L’Indice” 2024, n. 7/8): se c’è un leitmotiv nella storia del suo paesaggio durante il millennio dell’età di mezzo è la persistenza dell’eredità materiale della Roma imperiale e paleocristiana, che incombe sul presente creando una tensione continua tra luogo vissuto e ideale trascendente: “in nessun altro luogo la grandezza del passato era così manifestamente superiore alla realtà del momento; in nessun altro luogo la popolazione appariva così ‘nana’ rispetto alla vastità e alla nobiltà del contesto che la accoglieva”. I romani “vivevano tra le rovine, dentro le rovine, sopra le rovine” e ciò influiva sulle scelte che erano chiamati a compiere: “cosa demolire o smantellare, abbandonare o ignorare, conservare o riconfigurare, quali elementi del tutto nuovi creare e come situarli in relazione a ciò che esisteva di già”.
Forse per questo, per vederle in quanto tali quando ormai erano definitivamente diventate oggetto venerato di conoscenza e studio, dobbiamo aspettare che Roma sia la meta di viaggio di un pittore e disegnatore forestiero che la guarda e la ritrae dall’esterno come nessun altro nel Cinquecento, e significativamente dopo l’ennesima catastrofe, quella del Sacco della primavera del 1527. La sopravvivenza del lascito grafico dell’olandese Maarten van Heemskerck è davvero “a great stroke of art historical luck” come scrive Tatjana Bartsch: i circa novanta fogli dei suoi taccuini (oggi ridotti in album e conservati a Berlino), magnificamente riprodotti nel catalogo della grande mostra – da lei curata con Christian Melzer che si è tenuta l’anno scorso nella capitale tedesca – vennero disegnati durante il suo soggiorno pluriennale, tra il 1532 e entro il 1537, quando appunto l’Urbe cominciava a rianimarsi dopo il trauma. Le ragioni del viaggio furono squisitamente artistiche e dunque Maarten fu uno dei primi a intraprendere un tipo di esperienza che diventerà comune solo con l’avanzare del secolo. I suoi obiettivi erano lo studio dell’arte contemporanea, in particolare Michelangelo, ma soprattutto l’osservazione della città stessa con le sue collezioni di antichità e le sue rovine onnipresenti. A penna, pietra nera o rossa Heemskerck realizza i suoi magnifici disegni in presa diretta e con sicuro realismo: dei circa sessanta studi topografici, la maggior parte è dedicata ai monumenti antichi – quindi a rovine –, in particolare quelli danneggiati, disabitati e riconquistati dalla natura (una delle sue vedute dei palazzi imperiali sul palatino pare i sassi di Matera!), mentre gli edifici moderni o medievali vengono registrati quasi esclusivamente quando compresi in vedute più ampie. Ciò è particolarmente vero per la serie dedicata alle riprese del nuovo San Pietro vaticano, che pongono le moli immani della struttura iniziata da Bramante e lasciata interrotta alla sua morte in continuità ideale con il mondo delle rovine classiche: è infatti a questo punto che l’immagine della città comincia a essere caratterizzata, oltre che da quelle antiche, anche dalle Neubauruine – le “rovine nuove” – cioè da edifici moderni non finiti. Christof Thoenes in un saggio indimenticabile del 1986 (San Pietro come rovina. Note su alcune vedute di Maarten van Heemskerck, in Sostegno e Adornamento, Electa, 1998) ha analizzato a fondo queste vedute inserendole nel contesto di una fabbrica che comportò sin dall’inizio la sofferta distruzione della basilica costantiniana, in un processo di demolizione che interessò tutta la successiva storia dell’edificio. Maarten ritrae il gigantesco cantiere in modo fortemente espressivo, in desolante abbandono, le murature in parte rivestite e in parte no, crivellate dalle buche pontaie, rose dalle intemperie e segnate da solchi e crepe tra ciuffi di vegetazione. “Quando Heemskerck lasciò Roma, senza dubbio pensa[va]che fosse una condizione destinata a durare: la nuova fabbrica, iniziata appena una generazione prima, sembrava appartenere già al passato, al mondo dei ruderi. Oggi sappiamo che le cose andarono diversamente e che se Heemskerck fosse rimasto ancora alcuni anni a Roma avrebbe potuto vedere ciò che Vasari raffigurò a fresco nel palazzo della Cancelleria: dalle rovine fioriva nuova vita, e sul sito della fabbrica incompiuta e in abbandono riprendeva l’attività […]. A quel tempo Vasari non poteva sapere ciò che in seguito egli stesso avrebbe formulato così bene: che cioè solo nella nuova visione d’insieme di Michelangelo la fabbrica sarebbe stata riportata a dimensioni realizzabili ‘a minor forma, ma sì bene a maggior grandezza’. E proprio le parti che qui appaiono in costruzione sarebbero state più tardi demolite: la storia di San Pietro come rovina non si era ancora conclusa”.
maria.beltramini@unito.it
M. Beltramini insegna storia dell’architettura all’Università di Torino