La bibbia dell’orrore cosmico
di Luca Bianco
dal numero di settembre 2015
«La vita è una cosa orribile e dietro le nostre esigue conoscenze si affacciano sinistri barlumi di verità che talvolta la rendono mille volte più mostruosa»; è in libreria una nuova edizione della narrativa di Howard Phillips Lovecraft (Tutti i racconti, a cura di Giuseppe Lippi, trad. dall’americano di Giuseppe Lippi et al., pp. 1613, € 22, Mondadori, Milano 2015). Esce nella collana “Classici moderni” degli Oscar Mondadori; le uscite precedenti erano Alla ricerca del tempo perduto e l’Ulisse di Joyce.
I fortunati che già possiedono l’edizione in quattro volumi curata dalla stesso Giuseppe Lippi e uscita tra il 1989 e il 1992 (sempre per Mondadori) possono considerarlo un acquisto facoltativo, a meno che non siano collezionisti terminali o esegeti ossessivo-compulsivi (quando si parla di Lovecraft incontrare esponenti di queste due categorie è più frequente di quanto si possa pensare); per tutti gli altri invece è una spesa spassionatamente raccomandata, se non obbligatoria. Conta 1613 pagine; la costa è larga sette centimetri e mezzo; la copertina è del grande Alberto Martini, l’artista italiano che forse si può più avvicinare ai pittori surrealisti francesi e spagnoli, e che fu sommo illustratore di Edgar Allan Poe, e non fa troppo rimpiangere la spettacolare cover di Karel Thole per la pionieristica antologia curata per Mondadori nel 1966 da Fruttero e Lucentini, I mostri all’angolo della strada; il libro pesa 1586 grammi. A conti fatti, è una tra le più convenienti sostanze psicotrope in circolazione; ed è pure legale. Attenzione però: il rischio di un bad trip o di un’overdose è dietro l’angolo, anzi «all’angolo della strada».
Un’opera-mondo in cui il mondo non basta
Venendo al dettaglio, diciamo subito che il titolo mente: non ci sono solo i racconti, sistemati in rigoroso ordine cronologico (laddove l’altra antologia definitiva in cinque tomi Tutti i romanzi e i racconti, curata da Gianni Pilo e Sebastiano Fusco per Newton Compton nel 1993 optava per un’organizzazione tematica e conteneva anche alcuni saggi, lettere e appunti), ma sono anche compresi i pochi romanzi, le prove giovanili superstiti, tutti i racconti scritti da altri autori ai quali Lovecraft, per necessità alimentari o per amicizia o per esercizio, mise mano. Ad accompagnare questo ben di Dio troviamo poi un succinto ma esauriente corredo di note filologiche ed esegetiche per ciascun racconto, un’introduzione e un saggio critico del curatore, una nota biografica, una bibliografia ragionata e ben due cronologie, sulle quali torneremo. Mancherebbe solo un indice dei nomi e dei luoghi, insomma, e poi ci troveremmo di fronte ad una vera propria summa dell’orrore cosmico, una sorta di testo sacro per gli appassionati del fantastico: una bibbia gnostica, atroce e terribile che per fortuna non ha ancora ispirato nessun fondamentalismo. Verrebbe da considerarla un’opera-mondo come quelle di Proust e di Joyce che sono sue vicine di collana, se non fosse che per l’opera di Lovecraft questo mondo non è abbastanza.
«La scienza, già oggi sconvolgente nelle sue terribili rivelazioni, rappresenterà la fine della razza umana – ammesso pure che siamo una specie autonoma – quando fornirà alla nostra mente la chiave di orrori insopportabili che un giorno dilagheranno nel mondo». Le nove pagine di bibliografia presenti in quest’ultima edizione danno bene conto della ridda di interpretazioni e querelles passate e presenti intorno all’opera di HPL. Possono essere di natura letteraria («Lovecraft scrive bene o scrive male?»), politica («Lovecraft è di destra o di sinistra?»: esilarante, questa), filologica («Quanto sono complete le opere complete? Quanti paragrafi sono stati tagliati? Quali parole omesse?»). Tutti tuttavia concordano sull’importanza e l’unicità e la precocità di tale opera. Nei suoi momenti più alti, in effetti, nel cosiddetto «ciclo di Chtulhu» e in alcuni racconti (pochi o tanti, dipende dai gusti di ciascuno), Lovecraft ha inventato ed espresso al suo meglio un nuovo genere di letteratura fantastica, distillando le ossessioni solipsistiche di Edgar Allan Poe e ampliandone gli orizzonti, fino a includere «la vita, l’universo e tutto quanto». Il suo merito più alto e duraturo è quello di aver creato ex nihilo un intero universo; ma questo non basta, seppure non è poco. Tanti scrittori l’hanno fatto e lo fanno, soprattutto nell’ambito del fantastico. Quello che costituisce il fascino unico di Lovecraft è che di tale universo non ha mai voluto darci una trattazione organica, compiuta e sistematica. Non ha scritto un De rerum natura, una Divina Commedia, e neppure un Signore degli anelli, con la sua bella mappa della terra di mezzo squadernata in apertura di libro. La parte più cospicua della sua narrativa si presenta come un insieme di dispacci, di case studies, di appunti di viaggio, che di volta in volta ci restituiscono frammenti di una visione talmente spaventosa da non trovar posto neppure nel peggior incubo partorito dalla mente umana; per la semplice ragione che la mente umana non può contenerla.
L’uomo in Lovecraft non è più «misura di tutte le cose», come vuole la tradizione umanistica; anzi, perde di senso il concetto stesso di «misura». Nelle sue interminabili ekfráseis di paesaggi altri e monumenti alieni ci imbattiamo spesso in geometrie «non umane», in angoli che non sono angoli, in piani che si intersecano senza neppure sfiorarsi. Quando quella realtà, per disgrazia, collide con la nostra, e dunque assume forme che i nostri sensi normali possono percepire, ecco che nella scrittura si danno convegno le più orrende metamorfosi, ed è con esattezza quasi da entomologo che Lovecraft rende conto di tentacoli, squame, deformità, suoni sconosciuti, odori ributtanti, ruvidezze e levigatezze innaturali.
Fatti foste a viver come bruti
Questo avvicina la sua opera alla fantascienza classica, anche se Lovecraft compie un geniale ribaltamento di prospettiva del concetto di «frontiera»: se nella science fiction è ancora vivo e vegeto il mito dell’esploratore, dell’Ulisse dantesco, del cowboy che la frontiera deve valicarla e spostarla continuamente, per Lovecraft la frontiera va invece, a tutti i costi, difesa. Là fuori non c’è un intero universo da esplorare e conquistare: ce n’è invece più d’uno, e tutti ci assediano, tutti vogliono esplorare e conquistare noi; dunque, meno ne sappiamo e meglio è. Fummo fatti, insomma, a viver come bruti, ed è la nostra fortuna: perché la conoscenza non si accompagna alla virtù, ma all’Apocalisse.
«Se sapessimo ciò che veramente siamo, dovremmo seguire l’esempio di Arthur Jermyn; e Arthur Jermyn si cosparse di benzina e si diede fuoco nel cuore della notte». Le tre frasi citate in apertura di paragrafo sono l’incipit di un racconto del 1920. Il pessimismo ipercosmico di Lovecraft, che fa sembrare Leopardi ed Emil Cioran delle specie di Pollyanna appena malmostose, è senz’altro un altro dei suoi motivi di fascino, forse quello che ha attirato su di lui l’attenzione di tanta letteratura alta: da Jorge Luis Borges a Joyce Carol Oates, da Giorgio Manganelli (che lo sintetizzava efficacemente nel 1966: «Esiste unicamente l’inferno, e il nostro mondo ne è l’autorizzata autostrada d’accesso») a Michele Mari; l’esempio più eclatante e bello è però quello di Michel Houellebecq, che ha intitolato un suo saggio giovanile H.P. Lovecraft. Contro il mondo, contro la vita (Bompiani, 2005). Anche questa è una lettura raccomandata, utile se si vuole apprezzare Lovecraft, indispensabile se se ne vogliono cogliere gli aspetti meno puerili.
Però anche gli aspetti puerili hanno i loro motivi di fascino; migliaia di appassionati hanno tentato di mappare compiutamente l’universo lovecraftiano, dalla geografia (le città dai nomi inventati come Arkham o Innsmouth, ma anche i paesaggi non terrestri) alla storia interna (si veda la «cronologia di tempi mitici» messa a punto da Peter Haig e posta in appendice a quest’edizione), fino alla teologia: Fritz Leiber aveva provato decenni fa a mettere ordine nel magmatico pantheon lovecraftiano e nelle sue divinità dai nomi accidentati e dalle ortografie snervanti: Chtulhu, Nyarlathotep, Yog-Sototh – avrò senz’altro sbagliato qualche acca – su su fino a Azathoth, «il dio cieco e idiota che gorgoglia e bestemmia al centro dell’universo»; più di ogni altra cosa, è divertente il gioco che Lovecraft e i suoi amici e corrispondenti fanno con gli pseudobiblia: testi inventati di sana pianta, ma con tutti i crismi della verisimiglianza, ai quali nei racconti si fa riferimento di continuo: il più famoso è il Necronomicon scritto dall’arabo pazzo Abdul Alhazred. Tra i corrispondenti di Lovecraft, uno è divenuto più famoso degli altri: si tratta di Robert Erwin Howard, il creatore del personaggio di Conan il Barbaro, che ha ispirato fumetti (molto belli) e film (è il personaggio che ha lanciato Arnold Schwarzenegger). Il solito Lippi ha curato un fascicolo di Urania con la prima parte dei racconti horror di Howard (I figli della notte. Racconti dell’orrore vol. 1, “Urania Horror”, n. 8, aprile 2015, trad. dall’americano di Laura Serra, pp. 290, € 5,90, Mondadori, Milano 2015); la seconda dovrebbe uscire per Natale 2015. È poca cosa, quantitativamente, rispetto al grande ciclo fantasy di Conan, ma interessante, oltre che per i legami lovecraftiani, per la qualità e il piglio decisamente energico delle storie. Se Lovecraft era morbosamente legato alla sua terra, il New England, cioè all’epoca la parte più Europea degli Stati Uniti, il texano Howard, devoto di Jack London e lettore di Omar Khayyam, dissemina di incubi arcani il sud-ovest degli Usa; quasi a inverare, insieme a Lovecraft le parole di William Burroughs, che nel Pasto Nudo scriveva: «L’America non è una terra giovane. Era già vecchia sporca e malvagia prima dei coloni, prima degli indiani. Il male è lì che aspetta».
warburg@aliceposta.it
L Bianco è iconografo e storico dell’arte