Viviana Veneruso – L’irreparabile

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Mosca più balena, Valeria Parrella, minimum fax, 2003

ELEMENTO SCELTO: incipit

Quando avevo sei anni ci fu il terremoto.

Viviana Veneruso
L’irreparabile

Quando avevo sei anni ci fu il terremoto.

Stavo giocando a dama sul tappeto che sotto di me formavano le piastrelle coi loro quadrati perfetti. Lì mi crescevano le suore: quattro mattonelle in cotto per trenta chili di bambina. Ero grassa come mamma chioccia, mi dicevano affettuose le capepezz; paragone infelice, dato che io una mamma non l’avevo vista mai, che fosse di carne o di piume.

Quanto a capepezz, il nome con cui mi capitava di pensare ai loro crani in trappola, scuri e chini, non lo pronunciavo mai in loro presenza: la parola l’avevo rapinata al giardiniere, che gliela lanciava contro le spalle solamente quando loro non lo sentivano. Io però lo spiavo, mentre sforbiciava gli scalpi delle aiuole e ghignava impunito.

Su quel prato di mattonelle tutte uguali dovevo inventarmi dov’erano le caselle bianche e dove le nere, finché l’occhio non dimenticava la regola e sconcicava l’andamento della partita, ma poco male: giocavo da sola, vincevo sempre io.

E poi quell’alternanza ortogonale di bianco e nero dopotutto mi metteva a mio agio: non era che la riproduzione rigorosa del duetto di colori che mi accerchiava dappertutto, lì in convento. Le suore erano tende nere coi piedi sotto, un baldacchino di buio con un fregio di bianco sopra la fronte.

Forse è stato proprio a causa di quell’abitudine tanto ossificata ad avere attorno un mondo bicolore – a cui s’aggiungeva solo l’oro croccante dei paralleli in chiesa – che ho subìto un tale trauma quando nella mia realtà hanno fatto irruzione altre sfumature. Tinte a cui per anni non ho saputo dare un nome, se non quello dei fiori del giardino o delle pietanze coricateci nel piatto da Suor Margherita: giallo gattò di patate, ma che era anche la stessa tonalità dell’imbottitura soda del migliaccio; verde opalescente come le pepite di cedro; bianco guanciotte di panna sulle fragole.

Per questo, scoprire anni più tardi il sangue mestruale al suo primo gargarismo, tastarne la consistenza quando per la prima volta mi rigurgitò nelle mutandine, fu come ravanare nella confettura di visciole. Con la differenza che quella era buona e si usava per farcire pianelle di pasta sfoglia e impiantiti di crostate; invece, la sostanza che proveniva da me sembrava cattiva, venefica, rosso-pelle-di-diavolo.

Per come la vedevo, le suore non avevano di questi problemi: persino le punture del morbillo sulla loro pelle erano di un grigio slavato. E poi, prima di quell’apparizione traumatica – secrezione mostruosa del mio stesso corpo – non mi era pesato più di tanto omologarmi all’austerità bifronte del loro abbigliamento e della loro vita tutta. Non che avessi altra scelta: non potevo che essere a mia volta ammantata di nero e spruzzata di bianco, visto che ero anch’io come loro una parte del convento, del suo arredamento frigido; un’aggiunta, quasi un bonus, alle pene che le suore credevano di espiare martellandosi il petto; un’avemaria e un padrenostro di troppo, pronunciate con la voce stanca di chi di preghiere ne ha già sgranate diverse e, arrivata all’ultima, ci crede un po’ di meno.

Non c’erano altri bambini come me, in convento. Io ero stata uno strappo alla regola, insospettabile cedimento di sentimentalismo della madre superiora che, viste le mie dita intirizzite di neonata, chele minuscole di canocchia, aveva cambiato occhi. Mi era stato raccontato poi a mezza bocca dalle consorelle: il suo sguardo di marmo si era sciolto in cera, e i modi inamovibili avevano tradito un tentennamento. Allora aveva rivolto loro un gesto scattoso con la mano, ordine muto che stava a significare “venite qui, avvicinatevi”; in quel caso però c’era un sottotesto, che pure loro avevano dovuto indovinare: “venite qui, e portate pure lei”. Così dovevo essere passata dalle braccia di mia madre, che da neonata non ero capace di ricordare, alla pietra gelata e rasposa della ruota degli esposti, fino ad atterrare sulla scrivania della madre superiora: la mia terza culla sapeva di mogano e paraffina. Nessun’altra disgraziata creatura in fasce, dopo di me, aveva avuto la stessa accoglienza, nessun’altra generosa concessione era stata approvata da Madre Carmela, nei quali occhi – subito dopo avermi presa con sé – si era ricomposta la lastra di marmo contro cui ha cozzato il mio sguardo per tutta l’infanzia. Giuro infatti che non ho mai visto le gocce di cera che le altre sorelle giuravano di aver notato. E d’altronde il marmo non si modifica né si ammorbidisce, non si sciupa in schegge come il legno, né cambia come il vetro quando a colpirlo è il sole del crepuscolo o quello ovatta dell’alba.

Perciò dopotutto è facile a credersi: quando arrivò il terremoto ero sola. A quell’ora del giorno le suore di solito si radunavano in un brulicame metodico nel chiostro; tagliuzzavano il porticato che lo incorniciava coi passetti timidi e aggraziati di chi si crede già eterea. Dovevano accorgersi così che quello non era ancora il Regno dei Cieli vagheggiato dalle loro preghiere e che, anzi, sotto i piedi avevano una Terra che reclamava violenta la loro attenzione, coi suoi sussulti da taranta. La stessa Terra che d’un tratto, con un singhiozzo più violento dei precedenti, spazzò via tutte le mie pedine mescolando le bianche con le nere, trasgredendo ogni regola, facendomi sentire sgominata e impotente come quando s’intavola una partita contro qualcuno e si ammette, proprio malgrado, che si può anche perdere. Finale inedito, per me che ero il mio piccolo dio, abituata a decretare a mio piacimento vittorie e sconfitte, istituire regolamenti ed eccezioni.

Proprio io perdevo contro il pianeta, adesso che si dimenava scalciando e spaccando le piastrelle in frantumi tutti angoli e pungiglioni. Chissà che cosa avrebbero detto le suore di quel disordine, della disciplina mandata gambe all’aria, del rivestimento sotto di me che aveva tradito la sua ferrea geometria per farsi boato di schegge. Sotto i miei piedi correva un mosaico di ossicini di gres, che assieme formavano adesso un disegno distorto e slogato: tutto l’opposto del mondo levigato che mi avevano allestito intorno fino ad allora.

Misi in salvo solo una pedina bianca, infilandola sotto la lingua, e poi uscii dalla stanza sbucando in una cappella. Finché ero rimasta dentro, oltre che osservare la carneficina di pedine che si sparpagliavano in mille direzioni, avevo giocato a evitare la grandine di calcinacci che veniva giù dal soffitto. Quando il gioco s’era fatto ripetitivo, e forse pericoloso, considerando la ferita a forma di croce rachitica che m’ero ricavata sull’avambraccio, avevo seguito il fascio di luce tremolante che aggrediva il rosone. Mi accorsi fissandolo che non era però la luce a tremare, ma il rosone e il cielo e l’edificio tutto. La paura si infilava nelle pupille nei tendini e tra le dita dei piedi. Nell’altra stanza mi ero divertita a ballare sgraziata per evitare le scaglie d’intonaco che collassavano dal soffitto, ora giocavo a immobilizzarmi in una statua di roccia. E ferma e confitta al centro della navata sarei rimasta, se quel pavimento pazzo non mi avesse scutuliata da una parte all’altra: mi sentivo un filo ritorto di rosario nella tasca di una suora, sbatacchiato dal suo continuo alzarsi in piedi e genuflettersi e poi rialzarsi, durante la funzione.

Ero sola anche lì; non sapevo più se immaginarmi le sorelle riunite con sorvegliata pacatezza nel chiostro oppure paralizzate dallo spavento quanto me, spettinate sotto i veli, rifugiate nelle loro celle poverette di mobilio e piene di rassegnazione.

Finalmente riuscii a rimettermi in piedi dopo l’ennesimo capitombolo che mi aveva fatto rotolare tra gli inginocchiatoi. Stavo attenta agli spigoli di legno che rischiavano di pungermi le tempie le costole le tibie, a seconda di come cadevo, se raggomitolata a mo’ di lumaca senza guscio o col corpo spalancato come un cristo.

Fu allora che lo vidi: era proprio un cristo, lui, lo stesso che di solito sbirciavo piena di timore reverenziale mentre ci giudicava dalla parete, crocifisso per sempre, capocchie di chiodi grandi quanto xx a forargli i palmi. Stavolta però era per terra, coricato e arremeriato: gli mancavano tre delle dieci dita dei piedi. Non gliele avevo mai guardate prima di allora; di solito, con la coda dell’occhio, al massimo sogguardavo gli aghi delle ossa che gli premevano contro lo sterno, sotto una pelle che mi pareva permeabile, trasparente, capace di bucarsi da un istante all’altro, o al massimo davo un’occhiata timorosissima ai boccoli trasandati che gli rotolavano dalla fronte. Eppure le suore mi sgridavano sempre per la mia curiosità, dandomi della ficcanaso e additandomi per il modo compulsivo e affamato con cui rubavo con gli occhi ogni cosa. Di osservare l’architettura interna del convento però mi ero presto annoiata, monotona com’era: non trovavo nessun gusto a studiare le pustole delle pareti o la frugalità castigata delle cappelle. I loro arredi si facevano più interessanti solo quando li infiocchettavamo in occasione delle funzioni a cui presenziava il parroco. M’ingolosiva di più l’osservazione ravvicinata delle sorelle, o perlomeno di quel poco che faceva capolino dalle loro vesti: avevo scrutato bene i canyon di rughe che s’irradiavano sui volti di alcune, contato le butterature sulle guance di Suor Gioia, spiato i licheni di peluria che foderavano le orecchie di Suor Paola, indovinato il numero di nei che formicolavano sulla fronte di Suor Costanza.

Il cristo invece non l’avevo mai guardato da così vicino, né avevo osato considerare che potesse sbucciarsi le ginocchia o graffiarsi proprio come succedeva a me, quando sgattaiolavo via dalla custodia delle suore e finivo ad azzuffarmi con le ortiche.

Non appena i movimenti indiavolati del terremoto divennero più radi, riuscii a raggiungere la statua e ad appoggiare la mano sul suo stinco. Curiosa dell’effetto che faceva, toccai anche il vuoto lasciato dalle dita dei piedi schizzate via. Il mignolo e le linguacce di pelle che gli stavano accanto, incollate in un unico blocco, erano state divelte dall’impatto della caduta e la mutilazione aveva lasciato una zona che al tocco – al contrario di tutte le altre, levigate e perfette – sapeva di grezzo, irruvidito. M’immaginavo che la stessa consistenza l’avrei scoperta ad accarezzare la schiena frastagliata del vulcano che copriva le spalle al convento, troneggiante e altero come una cattedrale. Rimasi così per un po’, coi polpastrelli a grattugiare la parte scorticata. Si fosse trattato di stoffa, avrei subito pensato fiduciosa alle mani abili di Suor Ida e possibilità che lei sapesse come fare, per rammendare il ferito. Ma non sapevo invece come ci si potesse prendere cura della roccia, se non nel modo in cui stavo facendo io che – intenerita dal fatto che in quello stato il figlio di Dio mi sembrava un disgraziato, abbandonato e derelitto – gli abbracciavo le gambe, poggiando le guance contro le montagnole delle rotule.

Dopotutto il terremoto, pur nell’ammuina che aveva fatto scagliandosi con violenza sopra le nostre teste e sotto i nostri passi, martoriando volte e mattonelle, a ben guardare non aveva cambiato granché. Qualche lamina del soffitto era stata raschiata via; le mie pedine erano state sbaragliate; io ne avevo ingoiata una, fatta mia per sempre, ad abitare tra i villi dell’intestino; avevo perso la mia prima partita; il cristo s’era fatto male; io scoprivo d’un tratto, forse, cos’era quella fede cui le suore facevano riferimento in maniera tanto insistente: non doveva essere qualcosa di molto diverso da quello che provavo io adesso, abbracciando una statua di marmo franto per fingere di non essere più sola.