OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Abbiamo sempre vissuto nel castello, Shirley Jackson, Adelphi 2009, anno di prima pubblicazione del romanzo 1962
ELEMENTO SCELTO: personaggio – Mary Katherine Blackwood
Anna Raucci
Polvere
La tomba per l’ultima lucertola la scavo con le mani. Raccolgo la terra umida nei pugni e la impilo in piccole montagne – piramidi, mi dico, o fortezze. Mi restano macchie marroncine sulla gonna. Stavolta la bara è una scatola di latta. Me l’ha data Constance. Le ho detto che serviva per tenerci al sicuro. Per le altre sepolture ho usato contenitori di vetro, panni di tela, una sciarpa di seta blu che ho trovato nella cassettiera di nostra madre. Il corpo della lucertola che sto seppellendo all’ombra del castagno diventerà secco e si trasformerà in polvere, e a quel punto dovrò sostituirlo. Fino a quel momento non arriveranno sconosciuti, e non dovrò andare a letto senza cena neanche una volta, e Constance non piangerà neanche una volta. Ricopro la bara con il terreno, assicurandomi che nessuno mi stia guardando. Ci sono troppi occhi in casa nostra. Mi alzo e calpesto la tomba con gli stivali, cercando di appiattire il tutto. Il vero problema è la gente di fuori. Quelli che vivono in paese. Se potessero, si attaccherebbero ai vetri delle portefinestre del salotto, costringendo nostro padre a uscire e alzare la voce per mandarli via. Sento nostra madre che mi chiama e mi pulisco le mani sulla gonna. Mary Katherine, penso, grazie. Grazie per tutto quello che fai per noi. Sei preziosa. Il futuro dei Blackwood dipende dalle barriere.
Quando ci sediamo a tavola per mangiare, Constance mi sussurra: – Potevi almeno cambiarti. -.
Zio Julian fa un colpo di tosse. Zia Dorothy si sporge sul tavolo per versarsi la minestra. Lo zio fa un altro colpo di tosse. – Certe cose si imparano da giovani. – sentenzia. Nostro padre alza gli occhi dal piatto, guarda il fratello e la cognata. Zia Dorothy lascia che il mestolo ricada nella zuppiera. Appoggia le mani sulle ginocchia, sotto la tovaglia. Nostra madre inizia a parlare delle persone a cui faranno visita questa settimana. Non la capisco, questa smania di andarsi a trovare a vicenda. Mary Katherine va da Constance. Constance va da zio Julian. Zio Julian va da nostro padre. Nostro padre va da Mary Katherine. Mary Katherine va…
Nostro fratello si ingozza di pane. Diventa paonazzo e ne sputa un morso nel piatto. Se gli avessi messo una lucertola nella minestra, adesso tutti starebbero fissando quella, invece di una poltiglia masticata. Immagino code di lucertola che pendono dalle labbra dei miei parenti, come lingue scure in preda agli spasmi. Se gli Shepherd o i Carrington entrassero, vedrebbero mezzi rettili seduti impettiti attorno a un tavolo rotondo, con i tovaglioli bianchi accanto alle posate. Penso che non c’è modo di determinare se una lucertola sta ridendo.
Dopo pranzo decido di piantare un’ultima difesa, così non troveremo le lucertole nel pranzo, e lo zio non litigherà con nostro padre, e nostra madre non chiuderà più a chiave la porta del salotto e allora potrò toccare le statuine di porcellana di Meissen sui mobili e stendermi sul divano rosa.
Mi siedo in cucina con Constance. Mi prepara del tè, poi tira fuori la pentola che usa per fare la marmellata. Mi spiega il procedimento. Le studio le labbra alla ricerca di code penzolanti. Ci sono molti modi per uccidere una lucertola: schiacciarla, infilzarla con un ramo, farle mangiare del veleno per ratti.
Mentre Constance recupera dei cucchiai dai cassetti, infilo l’indice nel mio tè. Scotta contro la pelle. Aspetto qualche secondo, stringendo i denti per resistere e incrociando le caviglie sotto la sedia. Tiro il dito fuori dalla tazza. È rosso. Ci soffio su, fissando Constance che allinea sul tavolo dei barattoli puliti. Sono otto. Come la nostra famiglia più uno. Prendo l’ultimo appena Constance si gira. Attraverso il vetro, la pelle arrossata del mio indice sembra allargarsi. Se avessi un dito gigante, lo punterei contro quelli che odiano i Blackwood. Chi siete?, chiederei. Andate via. Esco dalla cucina con il barattolo tra le mani.
– Dove vai? -. Zio Julian ha un librone sottobraccio, le sopracciglia vicine al centro della fronte.
– A giocare. – dico. Mio zio apre la porta d’ingresso. Esco e raggiungo di corsa il rifugio.
Il rifugio cambia regolarmente. A volte è un cespuglio alto o una buca nei pressi della recinzione che circonda la nostra proprietà. Per due mesi ho usato una sedia con una gamba mezza monca che avevano lasciato in Blackwood Road. La accostavo a un albero e trovavo riparo dagli occhi degli altri. È per colpa loro se ogni tanto devo cambiare nascondiglio.
Stavolta il rifugio è un rettangolo di sassolini bianchi al cui interno riesco a malapena a sedermi. Devo piegare le ginocchia verso l’alto per rimanere dentro. Curvo la schiena in avanti, portandomi il barattolo davanti a un occhio e poi davanti all’altro. Posso metterci una lucertola grossa o l’orologio che ho visto in camera di nostro padre. Se fermo le lancette, saremo al sicuro. Mi dispiace che debbano morire tutti, un giorno. Mia madre mio padre Constance Thomas lo zio la zia. Della gente in paese non mi importa. A loro non importa di noi. Morirò anche io.
Lascerò il barattolo in un cassetto. Sto pensando che non ho preso un coperchio e che mi toccherà rubare della garza dal bagno per chiuderlo, quando nostra madre si avvicina con nostro fratello. Gli scosta i ricci neri dalla fronte e sussurra che può giocare con me. Non so perché abbassi la voce. Sento tutto comunque. Allargo le gambe per coprire la striscia di sassolini.
Quando tiro fuori la lingua nella sua direzione, nostra madre arriccia il naso. – Gioca con Thomas. – ordina.
Mio fratello si ferma a qualche millimetro dal rifugio, gli avambracci paffuti scoperti. La punta dell’alluce, esposto perché porta i sandali, sfiora un sasso. Thomas ha appena compiuto dieci anni, due in meno di me. Ha gli occhi azzurri come quelli di Constance. Mangia il doppio di me e, anche se parla poco, fa sempre troppo rumore. Se fosse per me, barricherei le porte quando fa i capricci e non si vuole togliere gli stivaletti sporchi di fango per entrare in casa.
Esco dal rifugio. – Andiamo a giocare. – dico, perché è quello che vogliono, e se lo faccio mi lasceranno in pace.
Nostra madre rilassa la fronte. Aspetta che io e Thomas avanziamo, poi si china per prendere il barattolo che ho lasciato nell’erba. Mi fermo.
Nostra madre sbuffa. – Dove l’hai preso? – chiede. Ha capelli grigi disseminati tra le ciocche castane. Sta invecchiando e morirà. Grazie Mary Katherine. Grazie perché ci tieni in vita.
Visto che non rispondo, nostra madre torna in casa con il barattolo, schiacciando con le scarpe marroni il punto in cui ho seppellito due denti da latte.
Durante il pomeriggio elaboro un nuovo piano. Uso un guanto di lana, riempiendolo di terriccio e infilandoci dentro il corpo di un piccolo bruco verde. Salgo di sopra, assicurandomi che non ci sia nessuno sul pianerottolo. Nella stanza di nostro padre apro un cassetto e infilo il guanto tra le lenzuola. Un dito di lana sbuca tra le federe. Finché riuscirò a vederlo, non entrerà nessuno.
La porta della stanza si apre e nostra madre resta sulla soglia, chiedendo: – Che fai?
Chiudo il cassetto. La voce di nostra madre sale di tono quando aggiunge: – Hai nascosto qualcosa?
Mi faccio da parte. Non voglio guardare. Torno sul pianerottolo e poi giù e dritta in giardino. Constance una volta mi ha chiesto se non mi dispiacesse per le lucertole. Le ho risposto di no. Non mi dispiacerebbe nemmeno se radessero al suolo il paese, e con gli animali scomparissero anche le persone. Il che potrebbe succedere, adesso che la barriera è stata infranta. Hai fatto tutto quello che potevi per noi, Mary Katherine.
Vado a sedermi nel rifugio, aspettando che succeda qualcosa. Non manca molto al tramonto. Quando sento nostra madre che grida, canticchio una canzone che ogni tanto canta la zia, una melodia popolare di cui non conosco tutte le parole.
Nostro padre urla più forte di nostra madre. Mi raggiunge a passo spedito, minacciando di trascinarmi in camera mia. Mi punta contro un indice grosso e minaccioso, con le pellicine sollevate lungo le unghie. Dovrò cambiare rifugio.
Mi alzo e inizio a correre verso la recinzione. Apro il cancelletto con la chiave che mi ero messa in tasca quando mi sono svegliata stamattina. Volevo seppellirla nella pineta.
Oltrepasso i confini del territorio dei Blackwood, la rete di fil di ferro che blocca l’accesso a quelli che non sono stati invitati. Supero il masso nero all’inizio di Blackwood Road. Passo davanti a Stella’s e al negozio di alimentari, proseguendo verso la biblioteca. In un giorno normale mi sarei fermata per comprare il giornale per nostro padre. Non oggi, perché stanno venendo a prendermi. Avevi ragione, Mary Katherine.
La gente del paese si affaccia alle finestre. Mi vedono passare e si grattano il mento. Fanno segno agli altri in casa perché diano un’occhiata alla figlia dei Blackwood che sta scappando.
I figli degli Elbert sono sul marciapiede a giocare con dei dadi. Li travolgo senza riprendere fiato, l’aria che non basta per arrivare fino alla fine della strada. Mi insultano ma non sento che dicono. Sento solo i miei respiri pesanti e il rumore delle macchine che mi passano accanto.
Constance grida alle mie spalle. Fino all’ultimo, non mi giro. Quando lo faccio, ho le gambe che tremano. Siamo arrivate alla biblioteca. Mia sorella ha la faccia rossa e sudaticcia. Nostro padre non c’è. Non mi avrà seguita neanche fino a Blackwood Road. Ha mandato lei, perché lui non si muove per certe cose. Mio padre è immobile, eterno come la casa. Mia madre, al contrario, è l’aria che smuove le tende in salotto e si insinua tra le corde dell’arpa. Si accorge di ogni respiro, nervosa e in agguato.
Constance allunga la mano. – Torniamo indietro.
Mi ricorda nostra madre che parla piano con Thomas per convincerlo a vestirsi. Se non conoscessi mia sorella, direi che non le importa che le persone ci vedano. Scuoto la testa, gli occhi che pizzicano. Mi sono graffiata la mano destra contro un ramo. Un taglio rosso, superficiale, si è aperto sul dorso. Penso di leccare via il sangue. L’ho visto fare ai gatti.
Constance si avvicina e mi appoggia le mani sulle spalle. – Torniamo indietro. – ripete, la voce tesa.
– Dopo di te. – replico, ma ormai ha capito che non sto per rimettermi a correre. Mi ha seguita perché pensava che me ne sarei andata per sempre. Nostro padre lo sapeva, che non l’avrei mai fatto. Lui sa tutto, come zio Julian.
Torno a casa saltellando su un piede solo, fingendo di essermi ferita l’altro. Constance si strofina la faccia e si passa le dita tra i capelli. Le donne affacciate alle finestre borbottano qualcosa. I bambini si fanno da parte. Un ragazzino sputa a terra al nostro passaggio. Non basterebbero tutti i rettili al mondo per salvarli. Sotto casa nostra ci sono i miei denti da latte, biglie e bambole che abbracciano i nostri terreni. Sotto le case in paese non c’è niente, solo la carne malata dei morti a cui un giorno si aggiungeranno i paesani.
Quando io e Constance siamo vicine alla recinzione, chiedo: – Che ha fatto?
– Lo ha buttato via.
– Lo devo sostituire.
Constance si morde l’interno della guancia. – Forse è meglio se li metti solo fuori.
– Ma dentro…
– Dentro ci sono io. Non ti succederà niente. Te lo prometto.
Vorrei dirle che non ho paura per me. È per tutta la famiglia. – Se succede qualcosa, io ci ho provato. – sussurro. Grazie, Mary Katherine. – Era per non morire. Glielo avevo messo nel cassetto per non morire. – spiego. Constance è andata avanti, però, e non mi sente. Adesso mi manderanno a letto senza cena. Ci dispiace, Mary Katherine. Non avremmo dovuto.