Mattia Esposito – Le anime stanche

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: Le anime morte, Nikolaj Gogol’, Einaudi, 2019, Torino

ELEMENTO SCELTO: personaggio – Petruška, il servo del protagonista Číčikov

Mattia Esposito
Le anime stanche

Il padrone Číčikov se ne stava ritto al centro della stanza, con le braccia distese, come i Cristi nelle icone.

Petruška non lo soffriva proprio: quello se ne stava lì, comodo comodo, aspettando che lui, Petruška, lo servisse, e guai a sbagliare frac, guai! Che poi mentre lo vestiva, il padrone gli faceva certe smorfie – porco! da quant’è che non ti lavi? – e poi ciarlava di possidenti e anime morte…

Viziato, ecco cos’era, soltanto uno smargiasso. Perché Petruška sapeva di fare sempre il suo buon lavoro, non come il cocchiere Selifàn, quello scimunito, che passava le giornate a trastullarsi. Bello lui, che non si occupava di cravatte e polsini…

Puah! lui ci sputava sopra, su tutto quel lusso inutile.

Però, a volte, a Petruška sembrava che il padrone se la passava per niente malaccio. Se gli veniva voglia di brioches, era capace di spedire Selifàn fino a Parigi, era capace! Se brontolava che aveva sonno, fiuh! di corsa a preparargli il letto.

Ma il padrone Číčikov era appunto questo: un padrone!

Lui, il Signore lo aveva fatto nascere pezzente, ma Petruška non se la prendeva troppo a male, perché altri nascevano peggio, tipo il baio di Selifàn, che lo scudisciava tutti i giorni.

Giacché doveva servire, la sua libertà sarebbe stata… non provare nulla! né fame né sete né sonno. E se il padrone lo faceva sgobbare, non stancarsi mai, ma tutta la notte stare sveglio a leggere, da sdraiato, come gli piaceva.

Così, una sera che pregava di fronte all’icona, domandò questo a Dio. Che lo facesse riposare un poco, anzi, che non lo facesse stancare proprio, perché lui voleva smettere di sentirsi stanco. Perché hai voglia a riposarti, quando ti tocca coricarti sul piumino sudicio, dove le zecche banchettano con la tua pelle, e sapendo che l’indomani mattina ti aspetta una levataccia, di quelle micidiali, che vuoi aprire gli occhi, ma hai le cispe che ti incollano le palpebre; e hai pure una fame bestia, ma non fai in tempo a bere un sorso dal samovar, che il padrone di là già ti sta chiamando. E poi i dolori alla schiena, i fischi alle orecchie: mica aveva tempo per curarsi, lui!

No…basta stanchezza, basta fame e dolori!

Tutto questo domandò e altre cose, del genere che i pidocchiosi come lui chiedono alla Madonna e ai santi quando finiscono col muso nella merdaccia e si disperano e implorano quelli lassù di fargli grazia.

Così Petruška espose all’icona le sue richieste. Scelse le parole tra quelle che aveva letto nei libri, anche se ne ignorava il significato; dopo poco, difatti, finì per confondersi. Ma per non sfigurare di fronte al Signore (che magari aveva interrotto qualche affaruccio suo per ascoltare lui, Petruška) per non sembrare insomma un babbeo, Petruška cominciò a sragionare.

– Perché, Signore, io ci ho tutti questi bisognucci, che hanno tutti i cristiani d’altronde; i giudei no, e neanche i tatari, o i gesuiti, ché quelli sono tutti demoni fuori di fé, loro stanno in combutta colle streghe e sono blasfemi e…sì, lo sai anche tu, Signore, che quelli ti vorrebbono fare la pellaccia…ma, Misericordia! non che io voglia dire che ci riuscirebbono: non mai! No proprio…che si doverebbero credersi tanto potenti per rischiare così tanto, ma quelli sono senza Grazia, e mi ce li vedo a sfidarti…oh, blasfemia! Ci prendaressero una scalea, e con quella saliscono alle stelle, dove tu stai Signore, e lì ti farebbono oltraggio: ma tu, Sbatakatambada! gli lanci due o tre folgori delle tue, e quelli Kaputt sulla terra, come vermi!

Per non saper concludere in modo dignitoso, Petruška ciarlava in questo modo. Poi, però sentì un gran sonno e “solo per qualche minuto, Signore, poi torno da te”, chiuse gli occhi; si addormentò così, da seduto.

Ora, questo silenzio fu molto propizio. Perché a Petruška, nel sonno, parve che la Madonna, guardandolo dal suo trono, provasse un po’ di pietà per lui, povero cretino, e che la Signora dicesse al figlio Suo:

– Lo aiutiamo, o non lo aiutiamo? Mi fa pena, non ha chiesto che un po’ di sollievo…

Disse questo Maria, o così parve a Petruška, che forse sognava, oppure aveva soltanto le traveggole, per via della vodka che si era ingollato neanche un’ora prima.

Il Bambino, dunque, rispose che sì, quel poveretto andava aiutato; così levò la sua manina artigliata sopra la testa di Petruška, lo benedisse, e poi stette a fissarlo coi suoi occhi spiritati, come due fessure, campiti contro il fondo dorato che mandava barbagli di fuoco alla luce tenue del lumino.

– Mondo reo! In tutte le Russie, un altro puzzone come te non lo ritroverei! Alzati, Petruška!

Il padrone continuava a trattarlo come una bestia, quello schifoso; eppure, Petruška sentiva che qualcosa, di dentro a sé, era cambiato. Sì, perché fin da quella mattina, fu come se gli avessero annodato le budella: non mangiava più, perché di fame non ce ne aveva punto.

Quando il padrone lo mandava in città per qualche commissioncella, Petruška tornava canticchiando, e la sera mica se ne stava a dormire! No no: leggeva, invece, e se non leggeva, faceva altro, come quando andava sul retro della locanda a inseguire i gatti.

– Signore, mi hai fatto la grazia: hai capito che i servi come me, non hanno tempo da sprecare per mangiare o dormire!

Poi un giorno il padrone se ne venne fuori che bisognava mettersi in viaggio per la città di G…, perché lì c’erano in ballo non meno di duecento anime!

Ci volle un po’, ma alla fine ci arrivarono in quella cittadaccia di G…, dove faceva un freddo cane. Il padrone Číčikov e Selifàn s’intabarrarono.

Petruška, no. Lui anzi, sceso di cassetta, fu il primo ad avanzare fino al portone della proprietà, dove quel possidente che doveva vendere le duecento anime li aspettava.

Portate dentro le valigie, la servitù si spostò dabbasso, per la cena.

Petruška seguì Selifàn e prese posto a un angolo della tavola; poi incrociò le braccia e cominciò a guardare tutti i servi intenti a mangiare, poveri affamati, mentre lui, lui era finalmente dispensato dai bisogni bassi. E infatti, dopo poco, si alzò e fece per andarsene.

– Non gradite il cibo? Senti un po’ Kseniya, quello lì non mangia niente di quello che hai preparato – disse una servetta; ma la cuoca alzò le spalle e continuò a riempirsi la bocca di fagioli.

– Non è molto educato, sapete?

A parlare era stata una serva molto carina, ma proprio carina caruccia, tanto che Petruška non se la sentì di dare contro quel visetto d’angelo. E allora via, siuuh!, uscì dalla cucina e si nascose dietro la porta, per stare a sentire che dicevano di lui. Ma non dicevano niente, a quelle bestie importava solo dei borlotti.

Quasi provò pena per loro e, visto che di lui s’erano dimenticati, decise di seguire il suo proposito, ch’era di leggere e leggere e leggere, e andò nella stanza che gli avevano dato a lui e a Selifàn.

Si raccolse sul lettuccio, ma non gli riuscì di finire neanche un rigo: continuava a sentire le parole di quella serva, rivedeva quella boccuccia dolce che lo sgridava e… diamine! Forse che si stava innamorando? E che era, così, all’improvviso? per di più, di quella bisbetica.… cominciò poi a fantasticare di certe cose non proprio cristiane da farsi con la serva. Tuttavia, quando sentiva la sua passione arrivare, e che avrebbe accoppato un gigante, pur di godere della sua bella, tankede!, si sgonfiava.

Per scrupolo allora s’abbassò le brache, stette un pezzo a guardarsi il Coso, per vedere se reagiva; lo sballonzolò anche un pochino, per dargli vigore. Nulla.

Cos’era? Era malato? Era ammattito? Lo avevano avvelenato, che si sentiva così mosciarello?

– Toh, stai a vedere che il Signore, quella notte…mi tolse anche l’amore alle donne, mi tolse!

Si spaventò; rigirò la stanza per trovare un crocifisso; lo trovò, gli chiese:

– Signore, che mi hai fatto? Non è mica che mi son ridotto come gli eunuchi, eh Signore? Che io quella lì, la servetta, Signore, me la spupazzerei volentieri, ma gli è che, lo vedi anche tu, non ce la faccio mica.

Era inquieto. Pensò che magari, sdraiandosi un po’… No! Eh eh, tontarello, lui non era più stanco.

Dopo qualche ora lo raggiunse Selifàn.

– Sei stato sgarbato, prima… ma stai bene?

Petruška sembrò non accorgersi di lui.

Quando, la mattina seguente, Selifàn lo venne a chiamare, Petruška era sempre lì, sembrava non essersi mosso; ma sulla testa gli mancavano alcune ciocche di capelli, che il cocchiere gli ritrovò tra le mani.

– Ecché! ti se strappato i capelli, scemo?

Ma non volle canzonarlo, perché il ragazzo stava male: aveva gli occhi rossi, la pelle giallo-bianchiccia come quella dei morti insepolti.

Vennero a fargli visita, anche dai villaggi vicini, anche quella certa servetta.

– Io lo dicevo per voi, sapete, di mangiare qualcosa, ieri sera… e ora state così conciato.

Nel pomeriggio, il padrone Číčikov e il possidente scesero a fargli visita.

Il possidente si avvicinò al moribondo e lo osservò un pochetto.

– Voi, signor Číčikov, me le avete un po’ sottostimate queste duecento anime che vi sto dando; sentitemi: visto che questo qui muore in casa mia, facciamo conto che sia servo mio, e visto che il servitorame va tenuto insieme, vi venderò quelle duecento, con in più questo qua, che fa duecento e uno; così, in amicizia.

Petruška, nel delirio, riuscì però a intendere lo smercio che i due padroni stavano facendo della sua anima. Lui, un’anima morta! Quindi lo davan già per crepato?

Arrivò la notte, e a Petruška non usciva di testa quell’idea che, fra non molto, il padrone Číčikov si sarebbe comprato anche la sua anima. Come sarebbe stato, essere un’anima morta?

– Siamo né più né meno come fummo da vivi.

Petruška trasalì all’udire quella voce.

– Chi ha parlato?

– Ma stai buono, ragazzo; altri hanno da morire; tu, non ancora.

Era un contadino, uno vecchio, che si era seduto al fondo del letto, e lo guardava con occhi dolci.

– Chi sei?

– Sono un’anima morta, come dite voi; ma, insomma, ero un cristiano, come te.

– E io sarò come te, tra non molto.

– No, invece.

– Invece sì: ho chiesto al Signore quel che non si deve mai chiedere, e ora è giusto che mi faccia morire.

– Ma stai buono… ché ciò che il Signore dà, il Signore se lo riprende.

– A me piuttosto, m’ha tolto diverse cose.

– Cosa?

– La fame, per dire, e poi la stanchezza, e la sete; e poi, anche, l’amore, l’amore alle donne.

– Ma tutto questo si può chiedere indietro, sai?

– Dici? Glielo posso chiedere?

– Lo sa già Lui, lo sa già. Però, vedi, quando ti restituisce tutto, fame e amore, fai in modo di non sprecarli.

– Sprecarli dici? E che, son bisogni, quelli, sono vuoti da riempire; come faccio a sprecare ciò che non è, se non è che quando faccio sì che non sia più…

– Ercole! Ma cosa dici? Tu leggi troppo, giovane. Senti: io son nato servo della gleba, e sono morto uguale. Però, ho campato ottant’anni. Lo sai come? Io ho vissuto molto, perché molto ho goduto, nella mia vita! Da giovane, sai, ho cavalcato di qui e di là, peggio di un cosacco; e poi, da vecchio, anche se mi toccava zappare, mi alzavo oggi un’ora, domani due ore dopo l’alba, e riposavo.

– E il tuo padrone, non protestava?

– Macché, quelli neanche sanno come ti chiami, a loro basta avere i rubli nella saccoccia, e noi intanto si fa quello che si vuole: mangiamo, dormiamo, amiamo, come dev’essere.

Petruška aveva molto da chiedergli, ma il vecchio scomparve.

La mattina successiva, svegliatosi, Petruška non sapeva come sentirsi.

Era morto? Sembrava di no. Però, neanche si sentiva granché bene…

Scese dal letto e, nell’infilarsi le ciabatte, col mignolo colpì il piedino del comò. Ma, ohé, che era quello, dolore? Sì, un atroce, meraviglioso dolore; e, per di più, in quello stesso momento, piegandosi per tastarsi il piede offeso, sentì una fitta alla pancia.

– Signore! Mi hai ridato la fame!

Quindi entrò il cocchiere Selifàn, che già sapeva di trovarlo meglio, e vide invece che il suo Petruška, rannicchiato ai piedi del letto, tempestava di baci il comodino.

– Cosa stai facendo, idiota? Mettiti a letto!

– Ma no, Selifàn, ma no: non lo vedi quant’è bello, andare a sbattere da qualche parte?