Alessandro Di Domizio – Fiorire contro i muri

OPERA SCELTA PER IL RETELLING: L’altra verità. Diario di una diversa, Alda Merini, BUR Rizzoli, 7 marzo 2007

ELEMENTO SCELTO: personaggio – Pierre

Alessandro Di Domizio
Fiorire contro i muri

La pazzia mi visita almeno due volte al giorno. La prima è Pierre. Lo incontro ogni mattina alle sei e trenta, nel quadrato d’erba tra il padiglione est e il muro di cinta. Lui è già lì, con le unghie sporche di terra e un rametto di menta selvatica tra i denti. Odora di disinfettante al fenolo, quello che ci versano addosso dopo le docce, e di rose di maggio, perché nasconde dei fiori nella manica per me.

Pierre non parla. Non ha mai parlato, dicono i dottori. Gli hanno tagliato la lingua al manicomio di Aversa, prima di trasferirlo qui. Ma io so la verità: la lingua se l’è strappata da solo per non tradire il nome della donna che amava.

Mi sistemo il vestito a pois che fu di mia madre e mi avvicino. Lui mi offre una rosa avvizzita e me la infila tra i capelli. Per ricordarti dove il dolore diventa luce, scrive sulla mia pelle con un rametto di salvia.

Io gli offro un pezzo di specchio rotto. Ci guardiamo riflessi nel vetro scheggiato. La mia faccia è tagliata in tre strisce, la sua in cinque. Con un dito ancora segnato dall’ago, Pierre disegna un ponte tra le nostre ferite.

***

Tra la prima e la seconda follia c’è il nostro concerto. Dopo il pasto di rape bollite, quando ci incatenano ai letti per la terapia, Pierre batte la nuca sul muro. Due colpi brevi, uno lungo. È il nostro spartito. Io rispondo sfregando le unghie contro le cinghie di cuoio. La musica è sgraziata, ma per noi è un valzer. Una volta ha infilato un foglio sotto la mia porta: Hai la voce delle fontane quando scherzano con la luna. Conservo quel foglietto nel libro di preghiere rubato alla cappella, tra due pagine di petali di calendula.

***

Pierre ha un segreto: una radiolina a transistor senza pile. La tiene nascosta nel tubo di scarico dietro le docce, avvolta in un panno imbevuto di olio di mandorla per non farla arrugginire. È un oggetto storto, con una manovella di ottone e un altoparlante ricoperto di ragnatele. Quando gira la manovella, le punte metalliche graffiano una molla e producono un ronzio che assomiglia a Clair de Lune suonata con un mazzetto di steli d’avena. Balliamo con i piedi nudi nel fango della vasca otturata, e per un’ora siamo al Park Hotel Schönbrunn di Vienna, con addosso abiti di seta invece di camicie di forza.

***

Pierre raccoglie sassi levigati dal fiume. Li dispone sul davanzale della mia cella, formando parole che solo noi capiamo: VIOLA, PERVINCA, CAMPANULA. Ieri ha creato ALDA con sassi bianchi e neri. Le infermiere li hanno spazzati via, ma io ne ho nascosto uno nel palmo. Era caldo come un bocciolo di magnolia.

Quando piove, ci rifugiamo sotto il porticato. Lui mi avvolge nella sua giacca, troppo larga per entrambi. “Perché non parli?” gli chiedo una volta. Lui scrive con il dito sulla mia mano: Perché le tue poesie bastano per due.

***

Tra una follia e l’altra, viviamo nelle intercapedini. Nell’angolo dove il muro trasuda salnitro, Pierre ha piantato un seme di lavanda dentro una capsula di gelatina. Ogni giorno, prima delle iniezioni, vi sputo un sorso d’acqua rubato alla brocca. Oggi è sbocciato un fiorellino viola che trema come la palpebra di un neonato. Le radici hanno squarciato l’involucro, infilandosi nelle crepe come dita affamate. Quando le infermiere ci trascinano per i corridoi, sfioro il muro con la caviglia scalza. I petali si attaccano alla pelle, lasciando impronte che lui leccherà stasera, trasformando il veleno del cemento in miele di trifoglio.

***

C’è una follia che non si conta, più dolce delle altre. Una volta al mese, quando la luna è un taglio netto nel cielo, saliamo sulla torretta abbandonata, quella che usavano per controllare che nessuno scappasse prima che costruissero il muro. Da lì si vede la città, con le sue luci tremolanti che sembrano navi intrappolate in conchiglie d’asfalto. Pierre mi passa un taccuino dove ha disegnato la mappa del mondo. Ci sono crocette rosse in punti precisi: Parigi, Lisbona, Istanbul, New York. “Sono i luoghi dove andremo?” chiedo. Lui scuote la testa e scrive: “Sono i luoghi dove siamo già stati, nelle vite che non ricordiamo”. E per un istante, sento il sapore dell’oceano che non ho mai visto e il suono di campane che non ho mai sentito.

***

La seconda follia è il bacio. Arriva sempre al tramonto, quando il sole si impiglia nelle grate come lana su un filo spinato.

Pierre mi trascina nel ripostiglio degli attrezzi, tra bidoni arrugginiti e sacchi di calce spenta.

La sua bocca si muove sulla mia, senza premere, come se temesse di spezzarmi. Sento i suoi denti, consumati dal digrignare notturno, sfiorarmi il labbro inferiore.

Quando le infermiere ci separano a secchiate d’acqua gelida, Pierre mi copre col suo corpo e diventiamo un’unica pozzanghera che ride.

***

Le nostre notti sono semi di luce. Pierre raccoglie briciole di vetro colorato dai lampadari rotti e le avvolge in fogli di stagnola rubati alle cucine. Li seppellisce nelle crepe del pavimento usando un cucchiaio piegato a badile.

Quando la luna piena entra dalle grate, i frammenti riflettono schegge d’azzurro sul muro della mia cella. Le chiamo “stelle di sicurezza” e le conto prima che l’alba le spenga. Pierre ne ha nascosta una nella cavità dell’orecchio destro, dove brilla ogni volta che sorride.

***

Ieri hanno spostato Pierre al padiglione est. “Solo per controlli,” dicono. Ma io so che è perché abbiamo colorato il muro del refettorio con il succo di more. La nostra opera: due cuori intrecciati, sopra la scritta Qui giace Dio, soffocato dai nostri baci.

Prima di portarlo via, mi ha passato un pacchetto avvolto nella carta del pane. Dentro c’era una rosa avvizzita, rossa e bianca, con il gambo sporco di muschio di torba. “Suonala quando ti manco,” aveva scritto su un biglietto. Ora, ogni notte, soffio piano tra i petali. Non esce una melodia, ma il ronzio che faceva lui. È come una ninna nanna.

La pazzia mi visita almeno due volte al giorno. La prima è il ricordo di Pierre. Alle sei e trenta, mi siedo sull’erba e divido lo specchio con la sua ombra.

La seconda è la rosa. La tengo sotto il cuscino e la stringo quando le lampade si spengono. So che lui, da qualche parte, batte due colpi brevi e uno lungo sul tubo di un altro padiglione.

Amami come si ama il rafano che brucia la gola.

Amami come si ama la resina che incolla le ossa.

Amami come si ama il muschio che divora le lapidi.

E quando verranno a chiudermi gli occhi, riderò.

Perché so che i nostri semi stanno già spaccando il cemento.

E un giorno, quella crepa diventerà una foresta.

E in quella foresta, due tronchi nodosi si cercheranno le radici.

E nessuno li chiamerà pazzi.

Li chiamerà amanti.

FINE