The Brutalist, di Brady Corbet

Un uomo ferito dalla sua stessa visione

The Brutalist di Brady Corbet
con Adrien Brody, Felicity Jones, Guy Pearce, Joe Alwyn, Usa, 2024

di Grazia Paganelli

Nel 1947 l’architetto ebreo ungherese László Tóth, scampato a Buchenwald, emigra negli Stati Uniti, a Philadelphia, dal cugino Attila Molnár che lo assume nel suo negozio di mobili, mentre le Nazioni Unite ratificano il piano di partizione della Palestina. La grande occasione sembra arrivare quando Harry Lee Van Buren, giovane rampollo del magnate Harrison, gli chiede di ristrutturare la libreria del padre nella sua tenuta a Doylestown per fare una sorpresa a quest’ultimo. László rinnova l’ambiente da cima a fondo, trasformando l’angusto studiolo in uno spazio arioso e austero tramite l’uso di librerie a scomparsa. Tuttavia, Harrison rincasa prima del previsto e, trovando la villa messa a soqquadro, si infuria e li caccia via prima che possano finire il lavoro ed essere pagati.

Tre anni dopo, László è diventato un eroinomane che vive in un dormitorio assieme all’amico Gordon e si mantiene spalando carbone. Un giorno, riceve la visita di Harrison, che si scusa per quanto accaduto. L’uomo si è informato sul conto di László, scoprendo il suo illustre passato in Europa. Lo invita a un ricevimento nella sua villa, dove lo presenta a tutta la famiglia e gli commissiona un ambizioso progetto con cui potrà lasciare un’eredità come architetto: un monumentale centro ricreativo polivalente intitolato alla memoria di sua madre. I lavori iniziano, non senza intromissioni e scetticismo ma, grazie all’intercessione di un avvocato di Van Buren, la moglie e la nipote di László, Erzsébet e Zsófia, riescono a raggiungere gli Stati Uniti.

L’arrivo di László Tóth negli Stati Uniti è una corsa in salita a vedere il cielo e la luce, dal buio di una nave che ha condotto migranti europei in fuga da povertà, discriminazioni, violenza. Si lasciano alle spalle gli orrori della guerra per ricominciare e dimenticare. Però la prima immagine davanti agli occhi del protagonista è quella della Statua della Libertà a testa in giù, senza le vertigini della visione, ma come a voler annunciare che il mondo “nuovo” può non essere quello che promette. E infatti la storia dell’architetto ungherese, che si dipana in 215 minuti di racconto sofferto e lucidissimo, è un viaggio interiore di rivelazioni e sopportazione, via crucis attraverso tappe di esaltazioni e di sconfitte, ossessioni e dichiarazioni di orgoglio.

The Brutalist, Leone d’argento per la migliore regia alla Mostra del Cinema di Venezia, due Golden Globe, come migliore regia e miglior film drammatico – dieci nomination agli Oscar, fra cui miglior film, regia, attore protagonista (Adrien Brody), sceneggiatura, fotografia – ha richiesto dieci anni di lavoro prima di essere portato a termine. Il trentasettenne Brady Corbet (che ha scritto soggetto e sceneggiatura con Mona Fastvold, dopo L’infanzia di un capo, 2015, e Vox Lux, 2018) si cala nell’opacità di un racconto stratificato (con la complessità dei suoi infiniti rimandi culturali, politici, sociali, storici, artistici) e sceglie l’estetica degli anni cinquanta utilizzando il formato Vista Vision, che adopera la pellicola da 35 millimetri ma ruotata in modo da raddoppiare la risoluzione rispetto al metodo tradizionale. “Il campo visivo – spiega Corbet – è tale che puoi trovarti esattamente di fronte all’angolo di un edificio di sei piani e, con un normale obiettivo da 50 millimetri, con cui si fotografa un volto umano, puoi vedere l’intero edificio dalla cima fino alla sua base”. Dettaglio non trascurabile per un film che fa di forme, volumi e piani il centro di un discorso sulle molte facce del processo creativo, non solo come momento salvifico, ma anche come necessità e disperazione, e che affida all’altezza degli interni l’ambizione di una vita intera e il superamento ideale della sua condizione di prigionia.

Il disorientamento diventa la dimensione tragica di László. Proprio lui che sa interpretare gli spazi, e trovare in essi una forma con cui vestirli, non ha più uno spazio che può dire casa. La sua stessa figura si impone all’interno delle inquadrature in netta separazione, quando non in opposizione, con lo sfondo. Vale a dire, nel linguaggio denso di Corbet, che quest’uomo silenzioso e geniale, che ha visto in faccia la vera incarnazione del male, si fa immagine che eccede lo sfondo, balza in primo piano nell’inquadratura piuttosto che trovarvi riparo. Come quando László scopre che il cugino ha adattato il suo nome da Molnár a Miller per adeguarsi alla società in cui vive, senza rimpianto per le proprie radici, smussando così le asperità della lingua e della memoria e per rientrare nel “quadro” della Storia senza eccezioni. László, invece, piange di fronte alle fotografie degli edifici Bauhaus progettati in Europa perché sa di non potersi assimilare al contesto sociale della ridente, conservatrice Pennsylvania, che Corbet descrive ricorrendo a immagini di repertorio: il geometrismo rassicurante dei luoghi e i colori pastello degli interni ci appaiono fin da subito claustrofobici e in totale contrasto con la fisicità spigolosa del protagonista, anima inquieta dallo sguardo veggente e, suo malgrado, ribelle, eppure incapace di sottrarsi al rapporto di potere con il suo mecenate, che lo esalta e lo abbandona, lo sostiene per possederlo e lo rimpiange.

Perché l’esperienza artistica può essere crudele e Corbet ha scelto il brutalismo come metafora politica di qualcosa che urta le coscienze ed è difficile comprendere fino in fondo. La reazione è quella del rifiuto e del sabotaggio, come accade inesorabilmente all’edificio cui il protagonista lavora per anni, e a loro stessi, immigrati ebrei che gli americani non vogliono. Sorta di simbolo che viene percepito come estraneo anche se tutti cercano invano di farlo proprio, con una buona dose di ipocrisia e mistificazione, perché la ruvidezza del cemento, l’imponenza della forma, l’oppressione dei corridoi bui attrae e sfugge a ogni tipo di definizione e di modificazione. Sta qui il “nocciolo duro della bellezza” che offre il titolo al secondo atto di questo film monumentale e solenne. Gli edifici come quello progettato da Tóth sono infatti una sfida diretta alla memoria di ciò che il mondo intero aveva vissuto nella prima metà del secolo.

Con tutte le sue ramificazioni narrative, con tutti i personaggi e i paesaggi e le derive, The Brutalist sembra voler suggerire che la rielaborazione dei traumi di guerra abbia influenzato l’architettura del dopoguerra. E non è un caso che molti dei materiali utilizzati per costruire questi edifici fossero sviluppati precedentemente proprio a scopi bellici. Impossibile non pensare al romanzo del 1943 La fonte meravigliosa della scrittrice Ayn Rand, e poi al film di King Vidor del 1949, opera anticonvenzionale essa stessa che si ispirava liberamente alla visionarietà di Frank Lloyd Wright. La differenza, tuttavia, sta nel soggetto. Laddove Rand e Vidor esaltavano l’integrità e l’incorruttibilità del suo protagonista, incapace di scendere a compromessi, Corbet si affida al ritratto di un uomo ferito prima di tutto dalla sua stessa visione, per esaltarla e usarla come monito e allargare lo sguardo oltre i fatti. Ecco spiegato il percorso di questo film: nell’impossibilità di filmare l’architettura, Corbet la rappresenta e lo fa giocando di contrasti e di parallelismi. Prima di tutto a livello sonoro, con l’utilizzo di una musica minimalista e radicale al tempo stesso, capace di “descrivere” il movimento brutalista (con i rumori metallici che diventano colonna sonora, oltre che stridii e urla), ma anche di riflettere il mood del Nord-Est americano degli anni cinquanta. Il jazz, il movimento beat, una certa normalità quotidiana si accumulano tra le immagini, riempiono i silenzi e si sovrappongono a dialoghi e gesti. “Mi piaceva l’idea che il brutalismo fosse una sorta di spettro che aleggiava su ogni inquadratura del film, di cui tutti erano in attesa – afferma Corbet – Ricordo di aver pensato ‘che piacere perverso sarebbe se riuscissi a far sì che il pubblico aspettasse e si eccitasse per questo oggetto inanimato in attesa che gli venga rivelato’. E, alla fine, è solo un edificio” (Patrik Brzeski, “The Brutalist”. Venice Winner Brady Corbet Opens Up About the Tireless Seven-Year Journey Behind His Buzzy Epic, “The Hollywood Reporter”, 9 settembre 2024). L’attenzione, dunque, è rivolta alle scelte creative di Tóth – come fosse un alter ego dello stesso regista – e alla ossessiva necessità di spiegare l’origine delle idee. Seguire qualcosa di molto sfuggente, sviscerare ogni dissonanza, ogni interrogativo e, alla fine, restituircelo nella sua elusività.

paganelli@museocinema.it
G. Paganelli è critico cinematografico e lavora al Museo del cinema di Torino