di Filippo Barbera
Dal 2010 al 2020, scrive Vincent Bevins in Se noi bruciamo. Dieci anni di rivolte senza rivoluzione, siamo stati spettatori (spesso) o attori (a volte) di un’eccezionale esplosione di proteste di massa che annunciava cambiamenti profondi verso modelli di società più equi, una politica più rappresentativa, un’economia nuova e all’altezza delle grandi sfide del mondo. Oggi, osservando retrospettivamente gli esiti di quelle “rivolte senza rivoluzioni”, non si può che constatare come nella maggior parte dei casi le cose siano andate diversamente. Consideriamo, per esempio, le “primavere arabe” analizzate nel testo e che a partire dal 2010 hanno infiammato le piazze di Tunisia, Egitto, Libia, Siria, Yemen, Bahrain, Algeria, Marocco e Giordania. I movimenti protagonisti di quegli eventi sono stati repressi o hanno agevolato cambi di regime che non hanno migliorato la situazione precedente. Anche il caso tunisino – l’unico dove c’era stata una transizione democratica relativamente riuscita – è tornato nel cono d’ombra dell’autoritarismo. In questi come in altri casi, dall’Asia al Sud America, si chiede Bevins, perché le cose non sono andate meglio ma, in molti casi, sono addirittura peggiorate?
Per rispondere, l’autore ricostruisce singoli casi nazionali attraverso circa duecento interviste ai protagonisti di quelle rivolte. Il risultato è un’analisi efficacissima di Tunisia, Egitto, Bahrain, Yemen, Turchia, Brasile, Ucraina, Corea del Sud e Cile, che diventa nei capitoli finali un’interpretazione acuta, semplice e stratificata alla stesso tempo. A un primo livello interpretativo, dobbiamo accettare definitivamente la possibilità concreta del “regresso storico”. Non solo la storia non ha nessuna direzione e nel suo farsi non si dispiega nessuna speranza, dubbio che da qualche tempo ci aveva effettivamente sfiorato, ma anche il peggioramento delle condizioni pregresse è del tutto plausibile. La conseguenza logica è che il periodo di relativo equilibro tra crescita economica, democrazia politica e conflitto sociale regolato, che ha caratterizzato una parte del mondo, deve oggi essere considerato una parentesi, un fragile equilibrio che si è rotto. Le conquiste della seconda metà del Novecento, certo relative, circoscritte e possibili grazie a rapporti neocoloniali, non sono replicabili. L’arena internazionale, poi, è regredita a un periodo “pre-congresso di Vienna”, priva di un nuovo equilibrio tra le potenze globali e – a differenza di allora – senza la volontà di costruirlo.
Certo, si tratta ancora di un “segnale debole”, la democrazia è complessivamente solida, si dirà. Non è così. I “segnali deboli” possono essere semi di futuro. Dopo una fase di espansione democratica, si è osservata una tendenza al declino e, in alcuni casi, al regresso. Pur nella loro incerta validità e attendibilità, gli “indici” sintetici negli ultimi vent’anni registrano una diminuzione nel numero di democrazie a livello globale, con un aumento corrispondente di regimi autoritari o ibridi. Lo stato di salute dei regimi più democratici, poi, è preoccupante in ordine alla libertà di stampa, alla separazione tra i poteri e ai diritti civili e sociali.
Un secondo “strato” della risposta di Bevins – più preciso in termini causali – risiede nel repertorio che ha strutturato l’azione dei movimenti di protesta indagati. Con le efficaci parole di due attivisti brasiliani intervistati: Não existe vácuo político (il vuoto politico non esiste). Se togli potere a chi lo detiene e non ti organizzi per prenderlo, si crea un “vuoto” al centro del sistema che altri riempiranno. Le proteste di massa apparentemente spontanee, coordinate attraverso i social media, organizzate in modo orizzontale e prive di leader formali e di meccanismi di selezione della classe politica, funzionano bene per aprire varchi, ma lasciano il vuoto. Sono “bolle di politica” orientate alla protesta, mosse dalla rabbia e dall’indignazione, ma che non alimentano la rivoluzione. Bolle che scoppiano troppo in fretta. In Egitto il vuoto è stato riempito dai militari. In Bahrain sono stati l’Arabia Saudita e il Consiglio di cooperazione del Golfo. A Kiev si è trattato di un gruppo diverso di oligarchi, affiancati dai militanti nazionalisti. Ciò è accaduto perché il repertorio di protesta dei movimenti di piazza è stato fortemente influenzato da parole d’ordine come “orizzontalità”, “spontaneismo”, “auto-organizzazione”, tipiche della temperie culturale antisovietica, neoanarchica e incentrata su forme di “critica artistica” maturata decenni prima in Europa e negli Stati Uniti (tesi di Luc Boltanski e Ève Chiapello in Il nuovo spirito del capitalismo). Repertorio che poi si è diffuso e saldato con il cambiamento generazionale, l’aumento dei livelli d’istruzione, le aspettative di status sociale non soddisfatte, una maggiore sensibilità per i diritti civili, l’indignazione per violazioni puntuali dell’economia morale (“il prezzo del pane”, “il costo dei trasporti”) di quei paesi. Il tutto, però, in assenza di organizzazione formale, intermediazione politica, matrice ideologica e procedure formali di selezione dell’élite.
Una rivoluzione è la sostituzione di una vecchia élite con una nuova, non necessariamente con la forza militare ma certamente con l’organizzazione politica e la presa del potere. Senza questo passaggio, si ha solo “iperpolitica”, concetto che lo storico belga Anton Jäger (nel suo libro Iperpolitica. Politicizzazione senza politica, Nero, 2024) riferisce a un fenomeno in cui la politica diventa onnipresente e altamente spettacolarizzata, ma al tempo stesso svuotata di capacità trasformative reali. In questo scenario, la politica è costantemente visibile nei media, nei social network e nello spazio pubblico, ma si riduce spesso a simboli, scontri culturali, proteste di piazza o virtuali e dinamiche fortemente individualizzate, piuttosto che a reali cambiamenti strutturali. In modo analogo a Bevins, anche Jäger descrive l’iperpolitica come una conseguenza della crisi delle tradizionali forme di rappresentanza e partecipazione, con i partiti politici in declino e le istituzioni sempre più scollegate dai cittadini. Questo porta a una politica che è intensa nei toni e nei conflitti, ma debole nelle soluzioni e nelle trasformazioni sociali.
Una forma simile di “protesta mobilitante” è al centro dell’ultimo libro di Francesco Filippi. A differenza di Bevins, qui l’intervallo storico considerato è molto più ampio (Cinquecento anni di rabbia, recita il titolo del volume) e la tesi abbraccia in modo più focalizzato il rapporto tra mezzi di comunicazione, rabbia e rivolta sociopolitica. Dall’introduzione della stampa a caratteri mobili fino all’era della comunicazione online, le società si sono trovate a dover fare i conti con un ritmo e una diffusione dei messaggi senza precedenti. La tesi del libro di Filippi è che, nonostante le indubbie differenze, i meccanismi fondamentali della comunicazione di massa abbiano molti aspetti in comune. Milioni di persone nel Sacro romano impero vennero a conoscenza delle novantacinque tesi di Lutero in pochissimo tempo, subito dopo la loro celebre affissione sulla porta della chiesa di Wittenberg, così come oggi, su internet, si diffondono rapidamente teorie complottiste su vittorie elettorali e presunte frodi. Alle otto del mattino del 6 gennaio, l’account Twitter di Donald Trump – ora presidente degli Stati Uniti – lanciava le parole d’ordine della protesta, “frode elettorale”, che avrebbe portato all’assalto del palazzo del congresso americano, Capitol Hill. Inoltre, sia la stampa che la comunicazione online allargano in modo incontrollabile i confini del pubblico: l’audience si espande in modo “memetico”, grazie alla trasmissione di idee e comportamenti attraverso imitazione e diffusione virale. Il web ha reso questo processo ancora più pervasivo e potente, ma il meccanismo di base era già attivo con la stampa. Un’altra similitudine è che entrambi i mezzi di comunicazione rendono arduo il compito di censurare, arginare o combattere le idee. Quando, nel Cinquecento, un signorotto locale tedesco cercava di punire gli stampatori per fermare la diffusione di certi messaggi, gli agricoltori potevano facilmente trovare un altro luogo dove stampare. Oggi, la censura su internet, che sia per motivi autoritari o educativi, risulta altrettanto complessa e problematica. Infine, sia la stampa che la comunicazione web non modificano in modo unidirezionale le modalità della protesta, ma vengono a loro volta alimentate da dinamiche sociali, crisi nei rapporti di potere, modelli di narrazione pubblica e più o meno fluidi percorsi di mobilità sociale.
Esempio dell’intreccio bidirezionale tra tecnologie della comunicazione, dinamiche sociali di medio periodo e cambiamento storico di lungo raggio è il lavoro di Peter Turchin che, nel 2010 in un breve pezzo su “Nature”, preannunciò che all’inizio del secondo decennio degli anni Duemila gli Stati Uniti sarebbero andati incontro a violenti scontri e moti di piazza, che avrebbero messo in profonda crisi l’ordine costituito. Nel 2022, come predetto dal modello, la folla prese d’assalto Capitol Hill, sobillata dal presidente uscente Donald Trump. Il modello di Turchin aveva predetto con più di dieci anni di anticipo gli eventi di Capitol Hill attraverso l’uso sistematico di dati quantitativi in grado di individuare dei “cicli storici”, basati su due variabili: l’aumento delle diseguaglianze e la più serrata competizione tra élite. Nel suo libro del 2023 End Times. Elites, Counter-Elites, and the Path of Political Disintegration, Turchin argomenta che l’aumento delle diseguaglianze economiche e la “sovrapproduzione delle élite”, quindi un numero di posti apicali inferiore alle persone che mirano a occuparli, sono forze di lungo periodo il cui cambiamento relativo (ad esempio elevate diseguaglianze e rapporto sfavorevole posti/persone) generano nel medio periodo finestre di opportunità per l’azione di imprenditori politici che – per scopi di consenso e potere – sfruttano il malcontento, la rabbia e l’indignazione associati alle diseguaglianze. Nel breve periodo, la contingenza tecnologica offerta dai mezzi di comunicazione di massa, dalla stampa al web, rende la loro azione possibile ed efficace. Si tratta di una prospettiva utile per mettere ordine nella “grammatica del tempo” suggerita dai libri di Bevins e Filippi e anche per dare meglio conto del ruolo dei fattori “meso” (imprenditori politici) non sempre messi bene a fuoco.
Se vi domandate perché la politica è così interessata al controllo dei mezzi di comunicazione – e se non vi è bastata la vittoria di Trump per giustificare la spesa di Elon Musk per acquistare Twitter – la lettura di questi libri dissolverà ogni incertezza residua.
filippo.barbera@unito.it
F. Barbera insegna sociologia economica all’Università di Torino