Una tartaruga sul dorso
di Esterino Adami
Hanif Kureishi
In frantumi
ed. orig. 2024, trad. dall’inglese di Gioia Guerzoni,
pp. 240, € 17,
Bompiani, Milano 2024
Il nuovo libro di Hanif Kureishi, uno degli scrittori più arguti del mondo anglosassone contemporaneo, segue la struttura del memoir per raccontare la sua “nuova” vita, cioè la sua complicata esistenza dopo l’incidente che, nel dicembre 2023, quando era a Roma dalla sua compagna Isabella, l’ha reso tetraplegico permanente. È un tema ovviamente drammatico che pone molte sfide e domande, ma è anche e soprattutto una riflessione sulla fragile, e tuttavia significativa, dimensione umana, in cui il primo filtro della nostra percezione, cioè il corpo, assume un’altra valenza e un’altra sostanza, visto che per l’uomo e il narratore ci sono continuamente “strumenti nelle orecchie, dita nel culo, spugne intorno ai genitali, sotto le braccia e sulla schiena, luci negli occhi”.
Uscito quasi in contemporanea con l’edizione in lingua inglese, il volume propone la rielaborazione di una serie di dispacci inizialmente composti con l’aiuto dei figli Carlo, Sachin e Kier nei lunghi mesi di ricovero e riabilitazione, prima presso cliniche italiane e poi presso ospedali in Inghilterra. Questi materiali, originariamente apparsi online in forma di blog, non soltanto offrono un’importante testimonianza dell’esperienza della tragedia, ma permettono anche di toccare discorsi sociali e culturali (la globalizzazione, la politica, i rapporti fra gli individui) in una profonda convinzione della molteplicità vertiginosa della vita e delle sue forme, soprattutto in tempi che paiono fondarsi su paura, ostilità e intolleranza. Kureishi invece ci parla del grande mondo, in cui “non riusciamo sempre a vedere i disabili, così come in altre circostanze non riusciamo a vedere le persone di colore o gli omosessuali”, e soprattutto delle barriere materiali e immateriali della discriminazione, e della marginalizzazione che relega nel buio molte categorie “fragili”, o meglio molte persone: perché si tratta di persone, non di etichette più o meno politicamente corrette.
Ma questo è un testo che non si autoalimenta e autocommisera per la tristezza di un corpo devastato e (definitivamente) perduto: è un diario intimo, ricco e visionario, attraverso il quale lo scrittore osserva la contemporaneità, con un confronto fra Italia e Inghilterra, o andando a scartabellare ricordi della sua vasta e incredibile carriera. Lodando lo spirito di sacrificio e di impegno di dottori, infermieri e paramedici, Kureishi nota come in Italia il personale ospedaliero sia essenzialmente di pelle bianca, mentre nel suo paese per la stragrande maggioranza si tratta di figli e nipoti dell’ex impero coloniale provenienti da vari angoli del mondo, considerazione questa che sintetizza le complessità della migrazione e della diaspora che spesso riverberano nei suoi romanzi, racconti e film. E parlando della persona che ora lo assiste quotidianamente assieme ai suoi familiari, afferma che “è una badante, non una serva”. In bilico fra considerazioni filosofiche, dettagli scatologici e aneddoti piccanti, l’autore stesso si interroga sulla sua nuova realtà: “pakistano, scrittore, storpio: chi sono ora? Le questioni identitarie sono tra le più fondamentali e sconcertanti della nostra epoca”.
Kureishi afferma apertamente di non essere interessato a scrivere romanzi e storie ora, ma lo stesso non può dirsi della sua voglia di dedicarsi alla scrittura saggistica e del suo desiderio non solo di comunicare, ma anche di ricordare, discutere, riflettere su un ampio ventaglio di temi, dalla musica alla politica, dal calcio alla psicanalisi. Attraverso queste pagine, rivive la Londra anni sessanta e settanta, con la vivacità culturale e musicale simboleggiata da David Bowie, ma anche macchiata da episodi di xenofobia, in un’Inghilterra che faticosamente negoziava il suo passato imperiale con una modernità ibrida. È questa la fase più formativa e di scoperta per Kureishi, che proprio in quel periodo legge i classici russi e francesi, corre a veder concerti al Crystal Palace Bowl, o si intrattiene con piccoli gruppi bohémiens con cui dibattere, scambiarsi idee, pensare all’arte: tanti momenti che potrebbero essere la miglior risposta al “delirio neoliberista di oggi”.
Questo libro è anche l’occasione per avvicinarsi a una carrellata di personaggi veri e immaginari, sepolti nelle pieghe della memoria o nei mondi narrativi dei romanzieri e dei registi, e così ci avviciniamo ai compagni di degenza di Kureishi, quali il Maestro (un attore e regista coetaneo) e Miss S, ma anche tante altre voci che sono state fonte di ispirazione, da Dickens e Freud a Čechov e Pinter, passando per Kafka e Proust. L’ironia, una delle caratteristiche principali attinta a questi giganti della cultura mondiale, riverbera nel libro: per esempio con l’episodio in cui un’infermiera (in Italia) chiede quanto tempo è servito per scrivere I figli della mezzanotte, in realtà il capolavoro del 1981 di Salman Rushdie, amico fedele più volte evocato. La capacità affabulatoria di Kureishi, anche con un corpo sconquassato, è sempre viva poiché coloro che usano la penna per creare storie in realtà “accudiscono l’anima dell’uomo nel suo difficile viaggio in questa vita impossibile”, e forse il fine ultimo di questo scritto è proprio quello.
Innegabilmente, In frantumi è un testo dai tratti spesso oscuri, e sofferenti, in cui la persona e il corpo sono ridisegnati in una nuova forma: “sono diventato una tartaruga sul dorso”, dice l’autore per esprimere la stanchezza e la frustrazione della totale dipendenza da altri per muoversi, nutrirsi, lavarsi, in una parola vivere. Ma al di là dello sconforto profondo provocato dall’incidente, è anche una intelligente lezione sul vivere, sul valore degli affetti e sul senso ultimo delle cose, come traspare dal finale del libro: “io non mi voglio lasciar andare: di tutto questo voglio fare qualcosa”.
esterino.adami@unito.it
E. Adami insegna lingua inglese all’Università di Torino