Nāṭyaśāstra, L’arte del teatro indiano

Danza pura per creare bellezza e danza recitante per mimare una storia

di Fabrizia Baldissera

Nāṭyaśāstra
L’arte del teatro indiano
trad. dal sanscrito di Adya Rangacharya,
pp. 547, € 30,
Bulzoni, Roma 2024

Il yaśāstra è il più antico e autorevole testo indiano di teatro, un tipo di rappresentazione costituita dall’unione di un testo letterario in poesia e prosa, il kāvya, un insieme di recitazione, azione scenica, canto e musica strumentale.

Nel Nāṭyaśāstra il teatro, nāṭya, è definito prekṣyaśravakāvya, “letteratura d’arte (kāvya) da vedere e da ascoltare”. Gli studiosi concordano nel ritenere che la sua composizione si collochi tra il II secolo a.C e il II d.C. In questa nuova traduzione lo studioso e uomo di teatro Rangacharya in una delle sue interessanti appendici la ritiene invece un’opera più tarda. Inoltre, interessato soprattutto all’arte dello spettacolo, omette il capitolo dedicato alla poetica, che pure per gli studiosi e gli amanti della letteratura indiana e del kāvya è uno dei più importanti contributi all’estetica letteraria dell’India.

Uno spettacolo di nāṭya, fatto di testo e rappresentazione scenica, fa partecipi gli spettatori di ciò che accade nel mondo, dando chiare indicazioni, attraverso esempi, su come sarebbe meglio agire. Lo mostra nel modo più piacevole possibile, “come un medico che ricopre di miele una medicina amara”. Nel trattato il teatro è detto “quinto Veda”: i quattro Veda (“Saperi” e anche “Principi di realtà”) sono i testi sacri indiani, proibiti alle donne e a persone di caste inferiori. Al contrario, l’arte del teatro è accessibile a tutti, anche se spesso i versi sono in sanscrito, lingua che già al tempo del Nāṭyaśāstra era conosciuta soltanto da persone colte. A renderla comprensibile era però la pratica scenica di attori che mimavano le azioni narrate, ripetendole più volte con variazioni e aggiunte.

L’idea più originale e più importante espressa nel trattato è che tutto ciò che si rappresenta deve contribuire a creare nello spettatore uno specifico stato d’animo, chiamato rasa, “gusto”. È un assaporamento delle emozioni rappresentate che provoca un piacere estetico particolare, soprattutto nei conoscitori pronti a intenderlo, detti “rasika”.

Il Nāṭyaśāstra offre tuttora agli studiosi diverse questioni aperte; pur ponendosi come manuale per scrittori, musicisti e attori-danzatori, è in realtà un testo assai complesso. Al suo interno troviamo problemi non sempre semplici da seguire, eppure importanti, affascinanti e centrali.

C’è una divisione, ad esempio, tra danza “pura”, ntta, costituita unicamente da movimenti aggraziati delle membra, e “danza recitante”, abhinaya, che mima una storia o un sentimento. Il saggio Bharata dichiara che la danza pura serve a creare bellezza, poiché la bellezza non solo dà piacere agli umani, ma è di buon auspicio. Lo ripeterà in seguito anche Kālidāsa (fiorito nel V secolo d.C.), il più grande scrittore indiano, aggiungendo che con queste due importanti qualità la danza nṛtta è l’ornamento di ogni festa.

Anche altri elementi del dramma hanno suscitato interpretazioni differenti. Nella lunga nota apposta al capitolo XXII dedicato alle vṛtti, “stili, atti di comunicazione”, Rangacharia dichiara di non amarle, pur ricordando che il testo recita: “Ho descritto l’abhinaya della voce, dei gesti e movimenti del corpo e quello delle emozioni, che culmina nella vṛtti”. Oltre a rimanere perplesso sul significato delle vṛtti, e ritenere questo capitolo “il più irragionevole”, Rangacharya si domanda perché il loro mito d’origine sia spiegato “in maniera così infantile e fantasiosa”, descrivendo cioè il combattimento tra due démoni maleducati e il dio Viṣṇu.

C’è da notare tuttavia che la maggior parte dei démoni sono sempre rappresentati così, nell’epica come nella letteratura cortese: brutti e sciocchi. Qui lanciano insulti e l’uso della voce dà origine alla bhārativṛtti, “lo stile verbale”; poi lottano, agitandosi con grandi salti e sbattendo le braccia in modo inconsulto, tanto che il loro agitarsi produce l’ārabhaṭī-vṛtti, “lo stile movimentato”.

Il dio Viṣṇu, invece, sempre raffigurato come il grande eroe cortese, uccide i nemici senza perdere la compostezza, rimanendo consapevole. È la dote che serve per legare con esattezza e precisione la corda dell’arco, incoccare la freccia e prendere la mira. La sua straordinaria presenza di spirito nella battaglia contro i démoni genera la sattvatī-vṛtti, lo “stile consapevole”, “vero”; alla fine del combattimento, poi, il bellissimo Viṣṇu con un gesto pieno di grazia si riaccomoda l’acconciatura allentata nella foga della lotta. Questo genera lo “stile aggraziato” o la kaiśikī-vṛtti, indicata dal dio Brahmā, già nel primo capitolo, come “ricca di rasa (gusto) e bhāva (emozione) perché dotata di passi e gesti di danza”. Per renderla ancora più leggiadra Bharata gli suggerisce di farla interpretare da personaggi femminili, perciò Brahmā crea le apsaras, “essenze delle acque”, le ninfe delle acque celesti, attrici e danzatrici divine. Dalle vṛtti poi dipendono anche le andature, che insieme a costume, trucco e acconciatura permettono di riconoscere i personaggi.

Nell’India antica l’arte drammatica fu considerata la più alta espressione artistica letteraria e il

Nāṭyaśāstra fu poi seguito da numerosi altri trattati che ne diedero diverse interpretazioni, che continuano a influenzare le pratiche teatrali anche odierne. Questo rende tanto più prezioso il regalo che il Teatro Tascabile ci fa con questa traduzione.

Dove va la mano, là va lo sguardo.

Dove va lo sguardo, là c’è la mente/cuore.

Dove va la mente/cuore, là c’è il rasa.

fabriziabal@gmail.com
F. Baldissera ha insegnato letteratura e lingua sanscrite all’Università di Firenze

Dei e demoni messi in scena

di Matteo Casari

Il 2024 ha segnato i cinquant’anni di attività del TtB – Teatro tascabile di Bergamo, gruppo teatrale che dalla fine degli anni settanta ha intrapreso una lunga, ininterrotta, inedita e apparentemente folle frequentazione del teatro-danza indiano senza però trasferirsi in India e senza dedicarsi solo a essa, ma mantenendo una fisionomia doppia, di gruppo teatrale occidentale e di danzatori orientali. Per festeggiare i propri cinquant’anni, il TtB non ha pensato a retrospettive o a eventi speciali. Ha scelto la pubblicazione di un libro, complesso quanto importante, Il Nāṭyaśāstra. L’arte del teatro indiano, corredandolo con apparati multipli, e partorendo così un’opera che chiama in causa l’enorme estensione del sapere teatrale steso tra Oriente e Occidente, e tra Asia ed Europa.

Raccontare questo volume è difficile perché i piani di cui si compone sono molti, variamente intrecciati tra loro e tutti portatori di temi significativi. Ma anche perché il Nāṭyaśāstra, che ne è il cuore, nei suoi trentasei capitoli sviscera ogni aspetto dell’arte teatrale ponendo di fronte al suo specchio l’intero creato: è il creato, infatti, a prender forma a partire dal teatro ideato dal dio Brahmā, il creatore, e non viceversa. Parafrasando un detto attribuito al Mahatma Gandhi, il quale lo riferiva alla poderosa epica del Mahābhārata, si potrebbe affermare che tutto ciò che è contenuto nel Nāṭyaśāstra esiste, e tutto ciò che non vi figura semplicemente non esiste.

Quando diciamo Nāṭyaśāstra alludiamo non a un’opera d’autore, ma a un sapere plurale, stratificatosi nei secoli e depositatosi in numerose varianti in differenti aree del subcontinente indiano, al quale guardano plurimi generi teatrali. In epoca contemporanea si contano vari tentativi di sistematizzazione e collazione di questi materiali per pervenire a un canone assestato. Tra quelli disponibili il TtB ha deciso di portare a traduzione la versione di Adya Rangacharya, studioso ma soprattutto drammaturgo o, come lo definisce nell’Introduzione Tiziana Barbiero, regista del TtB, “un uomo che ha praticato il teatro […] uno di noi”. Il testo di Adya Rangacharya – nella traduzione di Maddalena Italia – ha il pregio di saper sciogliere le sottigliezze minute del trattato d’origine in una lingua comprensibile senza scadere nella semplificazione. La sensibilità dell’uomo di teatro nel trattamento del testo si manifesta nella volontà di trasformare il sapere teorico in qualcosa di concreto e potenzialmente agibile: un pensiero che deve produrre azione. Emblematico l’incipit del primo capitolo: “Un giorno Ātreya e altri saggi si recarono da Bharata, il più grande studioso ed esperto del nāṭya (= arte drammatica + danza + musica)”. Nāṭya è un costrutto concettuale di difficile restituzione per il quale si sono versati fiumi d’inchiostro e che Adya Rangacharya risolve, con pragmatica efficacia, con un’equazione.

In questo volume il Nāṭyaśāstra, testo che compendia la scienza dell’arte scenica indiana il cui primo nucleo può essere collocato all’inizio dell’era volgare, è incastonato in una Introduzione, una Premessa, quattro Appendici, diversi saggi e un collegamento ipertestuale a contenuti video. Questi apparati di approfondimento e orientamento lo situano all’interno di un reticolo storico, critico ed estetico che permette di conoscerlo mettendolo in relazione con la cultura classica dell’India, e diacronico, leggendone il ruolo giocato lungo le dorsali teatrali che percorrono il continente eurasiatico da Oriente a Occidente e viceversa e delle quali il TtB è un significativo terminale.

Una vera e propria operazione editoriale, un “atto di rivolta e di speranza” dal sicuro valore seminale.

matteo.casari@unibo.it
M. Casari insegna culture performative dell’Asia all’Università di Bologna