Il profeta del cinema transgenere
di Luca Sottimano
Emilia Pérez di Jacques Audiard
con Karla Sofía Gascón, Zoe Saldana, Selena Gomez, Adriana Paz, Édgar Ramírez, Francia, 2024
Fin dal suo esordio dietro la macchina da presa (Regarde les hommes tomber, 1994), e seppure in forme diversissime, Jacques Audiard ha sempre ritratto personaggi che vivono una qualche marginalità, caratteri resi talvolta protagonisti da certo cinema francese (e statunitense), anche se non con costanza tale da poter configurare uno specifico (sotto)genere. Con le sue protagoniste femminili, donne o transgender come Emilia (Karla Sofía Gascón, doppiata in italiano da Vladimir Luxuria), in cerca di una propria affermazione nel mondo, Emilia Pérez conferma questa propensione collocandosi in un filone oggi molto in voga come quello femminista/Lgbt+ ma declinato attraverso modalità per lui inedite. Il dispositivo adottato stavolta da Audiard è quello delle molte canzoni presenti nel film, che esplicitano verbalmente quanto prima avveniva implicitamente o tramite simboli: la lotta per l’emancipazione femminile, la corruzione degli uomini, la doppia discriminazione che rischia di subire chi è donna e afrodiscendente, come il personaggio di Rita (Zoe Saldana). È a lei, praticante in uno studio legale di Città del Messico dov’è costretta a difendere uomini corrotti e criminali, che si rivolge il boss del cartello della droga Manitas perché l’aiuti a cambiare sesso, a diventare la donna che ha sempre sognato di essere.
Nella seconda parte, poi, Emilia (la nuova identità di Manitas) si ricongiunge alla moglie Jessi (Selena Gomez) senza rivelarle il suo passato, e coinvolge Rita in un’altra avventura, fondando un’associazione che cerca i corpi dei numerosi desaparecidos morti a causa delle faide tra narcotrafficanti. Audiard dà voce ai loro famigliari utilizzando anche un effetto iride, soluzione tipica del regista qui usata con la valenza di un’interpellazione corale e diretta, dall’orizzonte sfacciatamente patetico. Emilia Pérez segna quindi un passo falso per Audiard, la sua concessione al cinema indirizzato al politicamente corretto, al grande pubblico e ai riconoscimenti internazionali (che stanno fioccando, malgrado un consistente backlash, com’è chiamata oggi la valanga di commenti reazionari che molte espressioni di diritti civili si attirano)? Niente affatto: il regista francese lavora ancora una volta dentro un macrogenere principale ben mescolato con altri, senza ribaltarlo ma inserendovi elementi peculiari della sua poetica tramite piccole scosse telluriche. Si può dire che ogni sua opera appartenga a (sotto) generi o filoni diversi – noir, western, musical, prison movie, film sugli immigrati o disabili – che a volte si ibridano tra di loro e altre volte ne inglobano altri ancora: come il road movie in Regarde…, il melò in Un sapore di ruggine e ossa, gli elementi sovrannaturali in Il profeta.
Pur indicando i contributi del sodale Thomas Bidegain (con cui ha scritto quattro lungometraggi) e di Léa Mysius e Nicolas Livecchi (con i quali ha collaborato per Parigi, 13Arr., del 2021), a partire da uno spunto presente nel romanzo Écoute di Boris Razon (2018), in Emilia Pérez Audiard si prende il credit come sceneggiatore per la prima volta in solitaria. Un indizio di convincimento e un’assunzione di responsabilità. Peraltro, in origine, il film avrebbe dovuto essere un’opera lirica in quattro atti. La trasposizione sullo schermo rende manifesto come la sua poetica del mix tra generi (il musical che si fonde con la commedia, il dramma, il crime movie, la telenovela) ed emozioni (sorrisi, dolore, commozione) si fondi su un carattere intrinsecamente transgenere (al pari della protagonista). Un approccio rivendicato, e non da oggi, dal medesimo Audiard, che già in un’intervista del 2010, ai tempi di Il profeta, si definiva “transgenre” o “in-betweener”. Anche i personaggi dei suoi film precedenti sono spesso in “transizione”, scissi tra identità, padri, famiglie eterogenee, e danno vita a relazioni dove i confini tra attrazione, amore filiale/paterno, amicizia o mero sfruttamento sono sfumati. Audiard stesso lo è in più sensi: da una parte indiscutibilmente “autore” con tratti visivi e narrativi ricorrenti e una coerenza artistica che trascende – per l’appunto – generi e storie; dall’altro, portatore sano di una vocazione commerciale nel suo rifarsi a generi consolidati e popolari a cui in parte aderisce e che in parte rielabora, guardando contemporaneamente alla tradizione statunitense e a quella francese, riuscendo a ottenere un buon successo di pubblico; e rimanendo infine anche lui una figura ibrida, sia francese sia internazionale, anzi transnazionale, come sottolineava Gemma King nella monografia consacratagli (Manchester UP, 2021) con particolare riferimento a I fratelli Sister, girato nel 2018 in lingua inglese con star statunitensi, ma con riprese svolte in Europa da una troupe completamente francese. Allo stesso modo, Emilia Pérez è una produzione interamente francese girata per la maggior parte in patria, ma ambientata in Messico, parlata in spagnolo con protagoniste messicane interpretate da star non messicane (Gascón infatti è spagnola, Saldana – all’anagrafe Saldaña-Perego – è statunitense di origini dominicane e portoricane, Gomez è statunitense con padre messicano, a proposito di figure ibride). Quello che per molti è il fulcro delle critiche al film è allora, in verità, l’essenza stessa di questo lavoro e di tutto il cinema del suo regista.
I personaggi audiardiani sono poi accomunati da un percorso di crescita e consapevolezza tramite l’incontro con l’altro, che inizialmente appare distante da loro ma che alla fine si rivelerà (nel bene e nel male) non troppo diverso. Si reinventano e si trasformano per scoprire il vero sé, in finali che sempre, se si esclude Emilia Pérez, sono lieti, a evitare ogni pessimismo ma non una certa malinconia. Il Bildungsroman è forse allora il genere ombrello che unisce i film di Audiard. Così accade in Emilia Pérez a Emilia che, tramite la relazione passionale con Epifania, trova la metà con cui formare un’identità non più frammentata; e a Rita che, nella missione di salvare Emilia rapita da Jessi, assume finalmente un ruolo predominante in cui esprimere appieno le proprie potenzialità.
Le tre protagoniste principali si scopriranno inoltre simili, ma a differenza di tutte le precedenti storie narrate da Audiard, il punto di contatto è indiscutibilmente negativo: l’egocentrismo e l’egoismo. Jessi è succube di un amante interessato solo ai soldi di Manitas, tanto da mettere in secondo piano i figli e, come canta in un karaoke, desidera “amare solo sé stessa”. Rita cerca di sottrarsi a un ruolo subalterno nel mondo dell’avvocatura dominato da maschi senza scrupoli, ma finisce per diventare dipendente di (e da) Emilia, lamentandosi con lei: non riesce a godere dei risultati del suo lavoro perché attribuisce tutto il successo dell’operazione all’altra, sentendosi in difetto. Quest’ultima attua un cambiamento radicale di sé (“cambiare il corpo vuol dire cambiare la società”, recita una delle canzoni), ma a ben guardare è spinta da ideali non certo encomiabili. L’associazione che apre per ritrovare i desaparecidos, avvalendosi della rete criminosa creata da Manitas, è un modo per emendarsi dal suo passato e regalare una qualche forma di giustizia ai famigliari delle vittime del narcotraffico, ma lo fa soprattutto per sé stessa: l’orizzonte altruistico della donna (e del film stesso) viene sporcato. In tal senso, è anche beffardo il finale, con il corteo in onore della sua memoria, che fa di lei un modello in verità ben poco esemplare. Così, se tra di loro le tre donne continuano a ripetere di essere come sorelle, di fatto non lo sono mai (se non nella tardiva riconciliazione, in cui Emilia rivela a Jessi la verità su sé stessa) e dunque il film, nuovamente, non è affatto un manifesto sulla solidarietà femminile o meglio, come sempre, alla didattica e al didascalismo Audiard preferisce le zone grigie, i film sul tema e non a tema.
Allo stesso modo, se molte opere di Audiard raccontano la creazione di un nucleo alternativo a quello tradizionale, Emilia Pérez presenta un personaggio non conforme, transgender, che vuole però fare ritorno alla famiglia tradizionale, nel suo desiderio di stare con i propri figli. Un ulteriore punto di rottura con gli stereotipi del genere. Come accadeva in I fratelli Sister – in cui il ritorno dalla madre dei due protagonisti diverge dall’orizzonte di anti-domesticizzazione tipico del western – la famiglia tradizionale si ricompone in modo “alternativo”: nel finale, uscite di scena Emilia e Jessi, una nuova famiglia nasce con Rita che prende con sé i figli della coppia, richiamando l’epilogo di Un sapore di ruggine e ossa (la tragedia come mezzo per riunire i protagonisti, che per Emilia non è solo sfiorata e arriva troppo tardi). Pur scombinando ancora una volta le carte e le attese di chi ha amato le sue opere precedenti, con Emilia Pérez Audiard non abdica dunque alla propria poetica, anzi rende il suo decimo lungometraggio il culmine della propria filmografia.
s.luca96@gmail.com
L. Sottimano è critico cinematografico