La fama di Warburg sotto la specie del mito: una nuova biografia

Una grandiosa prospettiva di storia culturale

di Salvatore Settis

Per Giorgio Pasquali nel 1930 “Warburg” era il nome di un’istituzione più che di un uomo; per Hans Hönes, nel 2024, Aby Warburg (1866-1929) è “più un mito che un uomo in carne e ossa”. Di lui tutti conoscono la ricca Biblioteca, che da Amburgo si trapiantò a Londra all’avvento di Hitler (1933), diventando il Warburg Institute. Egli non diede mai forma sistematica alla sua grandiosa prospettiva di storia culturale, che può ricomporsi dalla convergenza di quattro fattori-chiave: gli scritti, la peculiare struttura della Biblioteca, l’atlante fotografico Mnemosyne a cui lavorò negli ultimi suoi anni, e infine una gran massa di note e appunti suoi e dei collaboratori. La raccolta degli scritti già pubblicati in vita, uscita in coincidenza con l’occupazione nazista del potere, fu bandita in Germania perché di autore ebreo, e poco letta altrove per il suo impervio tedesco. La prima traduzione, in italiano, è del 1966; la prima traduzione inglese, promossa da un italiano, si data 1999, quando la fama di Warburg era ormai in gran crescita, generando una vastissima bibliografia ma anche l’uso, oggi assai diffuso, di citarlo senza averlo letto, quasi fosse l’arcano reliquiario di idee tanto radicali quanto vaghe.

La nuova biografia (Hans C. Hönes, Un groviglio di sentieri. Vita di Aby Warburg , ed. orig. 2024, trad. di Mariella Milan, pp. 296, € 40, Johan & Levi, Monza 2024) esce cinquant’anni dopo la Intellectual Biography di Gombrich (The Warburg Institute, 1970), tradotta da Feltrinelli nel 1983. Tredici anni, allora, fra il testo inglese e quello italiano; pochi mesi adesso fra l’inglese di Hönes e la traduzione. Basta questo a dire quanto la figura di Warburg, allora nota a pochi adepti, sia diventata moneta corrente nelle scienze umane. Gombrich intraprese la sua biografia con alle spalle una promessa non mantenuta, la pubblicazione degli appunti di Warburg per cui era stato assunto a 26 anni (1936). Spargendo nel libro abbondanti citazioni da manoscritti inediti, Gombrich cercò di sostituire l’edizione mancata; ma anche di mostrarne l’impossibilità o forse l’inutilità, data la frammentarietà dell’opera e della vita stessa di Warburg. Hönes non ha tali conti in sospeso, e dispone ormai dell’edizione di numerosi documenti, che Gombrich avrebbe potuto scovare con gran fatica in carte d’archivio. La nuova biografia non rimpiazza la precedente, che data la statura del suo autore meriterà sempre di esser letta, ma è molto più ricca di dati, e almeno in apparenza più “obiettiva”.

Ma anche questo libro ha una sua tesi, più vicina a Gombrich di quanto non sembri. Leggendo la fama di Warburg sotto la specie del mito, Hönes vuol tornare dal mito all’uomo con la minuzia dei dati biografici. Ne emerge un Warburg fragile, con incombente senso del fallimento, in continua sofferenza psichica. “La sua carriera è segnata dal desiderio di unire i puntini della vita e di suggerire una coerenza logica in un’esistenza che […] appariva fallimentare. Molti suoi scritti e la sua esegesi autobiografica erano mossi dall’eterna speranza che […] gli episodi apparentemente casuali della sua biografia portassero a qualcosa di più grande”. “A differenza di Warburg, io non sono interessato a creare ego-documenti”, scrive Hönes, e come “ego-documento” egli legge perfino la celebre conferenza su Schifanoia, il massimo successo del Warburg conferenziere e una delle sue scoperte fattuali più notevoli, qui ridotta a “documento autobiografico”.

Che ogni libro, composizione musicale, teorema matematico, dipinto rifletta la personalità dell’autore è un truismo che nulla dice del peso di quel teorema o di quel poema (c’è qualcosa di più autobiografico della Commedia di Dante?). Ma questo punto ha per Hönes una funzione: Warburg con i suoi “ego-documenti” è per lui il vero fondatore del Warburg-mito oggi imperante. Non credo che sia così. Anzi, fra la morte di Warburg e la sua fama postuma (il “mito”) c’è uno iato di decenni. Basti ricordare che Mnemosyne, oggi citatissima e davvero mitizzata, a Londra venne smantellata togliendo le foto dai loro supporti e ridistribuendole una a una nei cassetti della fototeca; il giovane Gombrich ne approntò nel 1937 un’edizione semplificata, ad usum delphini, per il fratello di Warburg (la analizzarono per primi Giovanni Agosti e Vincenzo Farinella nel 1983).

Per intendere la tardiva nascita del “mito” di Warburg si dovrebbe studiare la sua discendenza immediata (Fritz Saxl, Gertrud Bing), la struttura della Biblioteca e dell’atlante Mnemosyne, ma anche il lungo vuoto d’interesse per lui e il perché della sua rinnovata fortuna. L’impostazione strettamente biografica di Hönes, pur con i suoi meriti, lascia irrisolti questi nodi. Spariscono anzi nella nebbia personaggi-chiave come Bing, vicinissima a Warburg, e più tardi direttrice del Warburg Institute. Di lei è in corso una rivalutazione, la pubblicazione di inediti, convegni e studi: cito qui i suoi Fragments sur Aby Warburg, con prefazione di Carlo Ginzburg (Institut National d’Histoire de l’Art, 2019) e Gertrud Bing im Warburg-Cassirer-Kreis (Wallstein, 2024), nonché un convegno a lei dedicato a Venezia (2024). In netta controtendenza, Hönes la presenta come “lacché” di Warburg (in inglese, “a deferential claqueur”): a smentirlo basterebbe quanto di lei scrisse Arnaldo Momigliano sulla Rivista Storica Italiana, 1964.

Per capire un libro è importante anche quello che vi manca: spesso il non-detto rivela la vera agenda dell’autore. E il salon des refusés di Hönes è piuttosto affollato. Vi troviamo ad esempio Edgar Wind (su cui il recente Edgar Wind. Art and Embodiment, Lang, 2024), di cui non è citata nemmeno la celebre, devastante recensione della biografia di Gombrich. Altro refusé è André Jolles, strettissimo amico di Warburg a inizio secolo, e coautore, con lui, di un incompiuto romanzo epistolare sulla Ninfa, figura ideale di giovane donna con i panni mossi dal vento, che personifica il movimento migrando dall’antichità greco-romana al primo Rinascimento, per esempio Ghirlandaio. Hönes cita lo scambio epistolare fra i due, ma come se si trattasse di una corrispondenza reale tra amici, e non di “capitoli” di una sorta di Bildungsroman epistolare programmatico, in cui Jolles si finge innamorato della Ninfa, e Warburg ha il ruolo del filologo che ne addita l’origine in rilievi greci e romani. Per non dire poi che nel salon des refusés di Hönes ci sono quasi tutti gli italiani, da Pasquali a Ginzburg, da Momigliano a Cantimori, da Croce a Praz. E sì che proprio dall’Italia degli anni sessanta-settanta parte la rinnovata fortuna di Warburg, il suo “mito”, come più d’un libro ha spiegato.

La fragilità psichica di Warburg, dice Gombrich e con lui Hönes, lo accompagnò tutta la vita, per esplodere quando la sconfitta della Germania nel 1918 fu evidente. Di qui la degenza nella clinica di Kreuzlingen, fino alla “guarigione” del 1924, che lo riportò ad Amburgo e agli ultimi, frenetici cinque anni di attività, fino alla morte. Tutto giusto, tutto vero: ma talvolta par quasi che Hönes sottoscriva la prima diagnosi della malattia di Warburg, dovuta a Ludwig Binswanger (schizofrenia), mentre risolutiva fu poi la seconda diagnosi, suggerita da Emil Kraepelin (sindrome bipolare). è su questa base che Warburg tornò in piena attività nei suoi ultimi anni, costruì il nuovo edificio della Biblioteca, lavorò a Mnemosyne. E non ha forse ragione Manganelli, quando scrive che la sofferenza psichica è “una delle grandi esperienze iniziatiche della vita, come la pubertà e la morte”?

Una visione riduttiva di Warburg informa non solo le due biografie di cui stiamo parlando, ma molti altri studi. La struttura delle tavole di Mnemosyne, ad esempio, viene spesso fraintesa, quasi fosse una sorta di collage composto en artiste (così in una mostra a Madrid nel 2010, curata da Didi-Huberman), senza indagarne, invece, la struttura morfologica. Ancor meno intesa è la concezione antropologica e comparativa della storia dell’arte sottesa alla ricerca di Warburg. Così ad esempio nel cruciale confronto fra il “Rinascimento dell’Antichità” fiorentino e il rinnovarsi della grammatica decorativa della ceramica Hopi, che proprio al tempo della sua visita in Arizona (1896) ripescò motivi e forme di cinque secoli prima. Warburg comprò sul posto sia vasi antichi (“stile Sikyatki”) sia quelli (“Sikyatki Revival”) appena prodotti da una ceramista di genio, Nampeyo: conservati al Museum am Rotenbaum di Amburgo, sono stati oggetto di una mostra nel 2022.

Negli ultimi due anni di vita, mentre lavorava a Mnemosyne, Warburg voleva tornare in Arizona, ma medici e familiari glielo impedirono. In questo desiderio Hönes legge un “ego-documento”, la nostalgia per la propria giovinezza. Ma se così fosse la frase di una sua lettera (“se fossi potuto tornare in Arizona, Mnemosyne sarebbe riuscita mille volte meglio”) sarebbe incomprensibile, perché in nessuna versione dell’Atlante c’è il minimo accenno alla cultura Hopi. C’è, credo, una sola spiegazione: Warburg era convinto che un ritorno sui luoghi del suo primo viaggio avrebbe alimentato il suo impulso comparativo; e che il lievito antropologico avrebbe dato spessore e sostanza al suo lavoro sul Rinascimento in Italia.

Il libro di Hönes mette in buon ordine i dati biografici di Warburg, ma lascia ampie zone d’ombra, sia sulla sua iniziale sfortuna che sulla sua corrente “mitizzazione”. Il lungo iato fra l’una e l’altra può esser descritto, con linguaggio warburghiano, come il “potere dell’intervallo”, che moltiplica l’effetto di una rinnovata fortuna. Ma gli scritti di Warburg, la sua Biblioteca, Mnemosyne sono solo “ego-documenti”? Rispondiamo con Proust (Contre Sainte-Beuve, 1909): “un libro è il prodotto di un io diverso da quello che si manifesta nelle abitudini, nella vita sociale, nei nostri difetti e nei nostri vizi”.

salvatore.settis@sns.it
S. Settis è archeologo e storico dell’arte