Speciale letteratura balcanica

Ivana Sajko
Piccole morti
ed. orig. 2021, trad. dal croato di Elisa Copetti, a cura di Alice Parmeggiani,
pp. 128, € 16,
Voland, Roma 2024

Non sono molti i romanzi contemporanei che sanno restituire la drammaticità dell’attuale momento storico con la stessa potenza espressiva di Piccole morti (Male smrti, 2021) della scrittrice e drammaturga croata Ivana Sajko (1975), uscito per i tipi di Voland nell’estate di quest’anno. Non è facile imbattersi in una narrazione che riesca a descrivere in maniera così vivida e convincente, senz’ombra di retorica, il generale smarrimento che la collettività europea si trova ad affrontare in questi primi anni Venti del XXI secolo: il peso di guerre passate e presenti in quelle aree che da sempre vengono relegate nella definizione generica e sbrigativa di “confini orientali”, la realtà tragica dell’emigrazione che nella cosiddetta società civile sembra suscitare indifferenza o tutt’al più un’indignazione priva di reali conseguenze, gli strascichi psicologici dell’isolamento legato al Covid, il prepotente riemergere sulla scena pubblica di pulsioni violente, sessiste e xenofobe mai del tutto sopite. Tutto ciò rivive con straordinaria intensità nelle modalità del racconto, affidato alla voce di un narratore anonimo, un apatico giornalista-attivista con irrealizzate aspirazioni letterarie che, dopo essere stato lasciato dalla compagna, abbandona di colpo la natìa costa dalmata per raggiungere Berlino in treno; nel corso del viaggio egli si mette ad annotare febbrilmente sulle pagine di un taccuino tutto quello che ha sempre avuto necessità di scrivere, senza aver mai trovato prima la forza di farlo. Il frenetico accavallarsi delle frasi, inframmezzato soltanto dalle virgole, delinea così il ritratto di una psiche confusa, alienata e sofferente, assieme a quello della realtà sociale e familiare che ha contribuito a plasmarla; il narratore infatti ripercorre l’infanzia vissuta nella Dalmazia rurale all’ombra di un padre alcolizzato e di una madre emigrata come Gastarbeiter in Germania, i traumi legati ai conflitti jugoslavi degli anni Novanta, l’incapacità di liberarsi dalla violenza patriarcale che ha segnato la sua crescita e che, unita a una verbosa accidia e alla reclusione forzata nei mesi della pandemia, ha decretato la fine della sua relazione con la donna che credeva di amare. È la storia di un fallimento esistenziale, nel quale sembra riflettersi anche quello dell’Unione Europea, intesa come progetto di democrazia, convivenza multietnica e accoglienza; nel tentativo di raggiungere Berlino, città dove la stessa autrice risiede, il narratore assiste ai maltrattamenti inflitti ai migranti dalla polizia di confine, oltre che ai discorsi razzisti dei compagni di viaggio tedeschi, nei quali percepisce gli echi delle umiliazioni subite dalla madre come lavoratrice straniera. Tutto ciò confluisce nel suo racconto tormentato e affannoso, il quale sembra tuttavia rappresentare una netta rottura con la sua esistenza precedente: il fatto che il protagonista decida di partire e mettersi finalmente a scrivere costituisce la morte del suo vecchio sé – non a caso, il narratore definisce ogni partenza come «una piccola morte» – ma prelude forse a una nuova vita. Il ritmo forsennato e asmatico della narrazione diventa quindi battito pulsante di speranza e rigenerazione, forse anche per la stessa Europa.

E il libro trae la sua forza proprio da questa particolare impostazione stilistica, nella quale risultano evidenti i trascorsi dell’autrice come performer teatrale, riassunti nella breve postfazione di Elisa Copetti, che ha trasposto l’opera in lingua italiana in collaborazione con Alice Parmeggiani. Piccole morti è il quarto romanzo di Ivana Sajko, che si conferma essere una delle più innovative voci della letteratura europea contemporanea; a Voland, che tiene fede al suo impegno di valorizzare le letterature del cosiddetto “est”, va senz’altro un plauso per avere riportato in Italia l’opera narrativa dell’autrice nell’ambito della collana Amazzoni, dedicata alla scrittura femminile, dopo più di dieci anni di assenza.

davanzo.enrico29@gmail.com
Enrico Davanzo è Dottorando di ricerca presso l’Università degli Studi “G. D’Annunzio” Chieti-Pescara


Slađana Nina Perković
Il funerale di zia Stana
ed. orig. 2020, trad. dal serbo di Marijana Puljić, a cura di Silvio Ferrari,
pp. 224, € 19,
Roma, Voland 2023

Slađana Nina Perković, scrittrice bosniaco-francese, è nata nel 1981 a Banja Luka. Il funerale di zia Stana è il suo secondo libro e il primo romanzo, che nel 2022 ha ricevuto la menzione speciale dalla giuria del Premio letterario dell’Unione europea. La tragicomica morte e il funerale della zia della protagonista, come suggerisce il titolo, costituiscono il bizzarro presupposto narrativo del romanzo: Stana è deceduta soffocandosi con un pezzo di carne di pollo. Questo evento inatteso sconvolge i piani della vendita della casa avita, costringendo la narratrice ad abbandonare l’unica fonte di gioia della sua apatica esistenza: le serie poliziesche britanniche. La partecipazione al funerale la trascina nel caos e nelle eccentriche dinamiche della sua famiglia, offrendo uno sguardo profondo e, al contempo, ironico sulle relazioni familiari e sulla loro complessità.

Tuttavia, il caos che a prima vista può sembrare inusuale, è in realtà un modus vivendi molto tipico nel contesto sociale bosniaco-erzegovese. Con la sua protagonista Slađana Perković trascina anche il lettore nella tana del coniglio dell’assurdo e del caos, in un percorso narrativo permeato di una peculiare ironia, che trasforma il racconto in una sorta di farsa surreale in stile Monty Python, perfetta espressione della mentalità dell’ambiente nel quale si svolgono le vicende narrate. Farsesche sono le tipiche situazioni locali: c’è chi provvede a erigere la propria lapide funeraria per poi tentare, senza successo, di suicidarsi; o chi celebra la fine della guerra e la firma dell’accordo di pace appendendosi al balcone e sparando in aria con un kalashnikov. La quotidianità descritta nel romanzo è spinta ai limiti dell’assurdo e del grottesco, poiché soltanto in quella dimensione l’umanità qui descritta riesce a sopportare e ad affrontare, irridendola, la pesantezza della vita.

I personaggi letterari di Slađana Perković sono ispirati a persone reali, e riproducono una società essenzialmente femminile, rappresentata in una galleria eterogenea e, non di rado, curiosa se non, addirittura, stravagante. Incontriamo una madre di famiglia che cucina fagioli, guadagna uno stipendio e supervisiona gli operai nelle riparazioni del bagno; donne che distruggono le fotografie di famiglia degli anni ’80 perché insoddisfatte del loro aspetto secondo la moda di allora, o che considerano un’offesa mortale il commento sulla quantità eccessiva di aceto nel condimento dell’insalata e  che, senza esitazione, rompono i rapporti familiari. D’altra parte i personaggi maschili sembrano svolgere la mera funzione di elemento di contrasto con le figure femminili e costituiscono, anch’essi, tipici modelli sociali. Dal padre di famiglia che passa le giornate “marcendo sulla maledetta poltrona”, e a calcolare la sua età quando è iniziata la guerra e a valutare quanto la sua vita è stata rovinata; al cugino che giura sulla sua Golfetta rossa (allo specchietto retrovisore pende un crocifisso di legno che oscilla insieme al profumatore a forma di pino) e che si offende se il passeggero accenna a indossare la cintura di sicurezza, interpretando il gesto come un insulto alla sua abilità di guidatore;  o all’ex ragazzo della protagonista il quale, nella diaspora australiana, frequenta le discoteche balcaniche e infila banconote nel reggiseno delle cantanti.

I personaggi femminili, altrettanti modelli tipici della società bosniaca ed erzegovese, sfuggono a ogni raffigurazione stereotipica. L’autrice plasma la materia prima dell’archetipo femminile di quella cultura, creando personaggi letterari tangibili e unici che agiscono sullo sfondo della contemporaneità. Incarnate nella nonna Vida che, unica reduce dal campo di concentramento nel 1945 e avendo trovato il villaggio e la propria casa ridotti in cenere, aveva fatto costruire una nuova abitazione di mattoni di fango, sono ora indotte a vendere proprio quella casa. Queste donne confermano l’eterno mantra del principio femminile: “più la vita si fa dura, più le donne lottano“. L’umorismo, basato sul colore locale, si manifesta anche sul piano linguistico, principalmente attraverso espressioni colloquiali che accentuano la natura farsesca, ma anche attraverso situazioni culturalmente specifiche. Tutto ciò di cui il lettore del testo originale gode e ride può essere apprezzato anche anche da chi legge il testo in italiano grazie alla straordinaria traduzione di Marijana Puljić. Il complesso compito di trasferire altrove l’umorismo proprio di uno specifico contesto culturale è stato abilmente svolto  dalla traduttrice, che ha preservato gli elementi della cultura di partenza senza compromettere la naturalezza della narrazione nella lingua d’arrivo. Sebbene Il funerale di zia Stana sia il primo romanzo di Slađana Nina Perković, è sicuramente lecito affermare che non sarà l’ultimo, poiché, sulla scena letteraria europea, questa potente voce femminile ha appena iniziato a farsi sentire.

anja.pravuljac@flf.unibl.org
Anja Pravuljac insegna traduzione letteraria all’Università di Banja Luka (Bosnia ed Erzegovina)


Amir Alagić
Un’infanzia lunga cent’anni
ed. orig. 2017, trad. dal croato di Marijana Puljić, postfazione di Silvio Ferrari,
pp. 384, € 19.00,
Ronzani, Dueville 2023

La Pola del XX secolo è il cronotopo prediletto nella prosa di Amir Alagić, scrittore croato di origini bosniache, nato nel 1977 a Banja Luka. Durante il conflitto jugoslavo degli anni Novanta Alagić ha trovato nella regione istriana la dimensione multiculturale e il senso di appartenenza che la guerra in Bosnia-Erzegovina aveva definitivamente cancellato dalla sua città natale. Sentendo di condividere con la città di Pola il destino di esilio (lui è rimasto senza città e Pola senza i suoi abitanti almeno tre volte nel secolo scorso), Alagić lega indissolubilmente il tema dell’esilio al contesto polese, anche quindi per motivi biografici, nell’impegno costante di ricostruire il passato e il presente multiculturale della città di Pola e nel volere innalzare alcuni fenomeni locali a livello universale.

Intrecciando abilmente le singole storie di vita, il romanzo Un’infanzia lunga cent’anni diventa un racconto corale della città che non riesce a invecchiare perché ciclicamente perde la propria popolazione, per cui il titolo metaforico indica sia il tempo d’azione sia l’interpretazione del passato polese. La dislocazione, spesso ma non sempre causata dalla guerra, e l’alternarsi delle persone – quelli che arrivano occupano il posto di quelli che se ne sono andati – sono al centro degli interessi di Alagić che in questa narrazione crea un mosaico complesso di destini macinati nel mulino dei tempi turbolenti”. La città sfoltita dagli abitanti” è raffigurata in diversi momenti chiave del Novecento, in cui si scontrano vari nazionalismi, ma da cui, nel contempo, emerge chiara e autoironica anche l’identità istriana: Da quel giorno Rosanna decise di diventare Roža, e come Roža fu anche seppellita. […] Voleva dimostrare che loro erano sia questi che quelli, che erano tutto e che li lasciassero in pace. Poco prima di morire, quando le arrivò un nipotino, come suo ultimo desiderio chiese che al bambino venisse dato il nome Slavko. […] “Che sia Slavko Delcaro e che tutti mi bacino il culo”. Fu una delle poche frasi di tutta la sua vita che pronunciò in croato”.

Come spesso accade nei gialli sovversivi di Alagić, la narrazione si apre con la notizia di una morte apparentemente misteriosa che necessita di ulteriori chiarimenti. L’obiettivo, tuttavia, non è scoprire il presunto colpevole, ma utilizzare la cornice dell’indagine poliziesca per creare la tensione narrativa e sostenere una fabula ricca e ramificata. La morte di Gita Strahinja nata Heinrich coincide con il ritrovamento per le strade di Pola di numerosi oggetti preziosi che le erano appartenuti e che hanno una molteplice funzione nell’architettura del racconto. I gioielli sparsi servono a creare la mappa precisa della città di elezione dell’autore che si dispiega al ritmo del passo umano, dalle ville austriache ai palazzi dell’epoca socialista, dal cantiere navale di Pola al bar Da Šaban, luogo di culto nel quartiere di Veruda. Nello stesso tempo ogni gioiello ritrovato introduce nuovi personaggi nel racconto, aprendo lo spazio ai flashback in cui si recupera il passato di famiglie polesi di origini italiane, croate, tedesche, slovene, bosniache, serbe, e persino russe. Infine, l’immagine dell’eredità famigliare sparpagliata in diverse parti della città rappresenta metaforicamente il saccheggio e la scomparsa di diverse generazioni di polesi, tema centrale del libro.

Il motivo dell’infanzia evocato nel titolo è uno dei fili rossi nel romanzo di Alagić a partire dal parallelo tra l’eterna infanzia di Pola e l’immaturità dei due protagonisti Slavko Delcaro e Vladimir Strahinja, definiti “i giovani anziani”. Anche il passato centenario di Pola trova l’equivalente nella figura di Varachasij Afanas’evič Troščinskij, la cui vita lunga cent’anni si chiude appunto nella “città situata ai margini di ogni Impero e Stato”. Sebbene il romanzo indaghi i cambiamenti storici che provocano morti violente, Alagić scrive le pagine migliori descrivendo la morte naturale e l’ultimo giorno della protagonista che, ripercorrendo le vie della sua vita, raccoglie la città in una rete di memorie poetiche.

marija.bradas@unive.it
Marija Bradaš insegna Lingua e letteratura serba e croata all’Università Ca’ Foscari Venezia