Vermiglio, di Maura Delpero

Nelle crepe di un tempo sospeso

di Mariapaola Pierini

Vermiglio di Maura Delpero
con Tommaso Ragno, Martina Scrinzi, Giuseppe De Domenico, Orietta Notari, Carlotta Gamba, Italia-Francia-Belgio, 2024

“Questo film è nato da un sogno”, dice Maura Delpero di fronte alla platea della Sala Grande dopo aver ricevuto il Gran Premio della Giuria alla Mostra del Cinema di Venezia. Nel sogno le era apparso il padre, morto poco tempo prima: aveva sei anni, ed era a Vermiglio, il paese natio del Trentino che dà il titolo al film. Un sogno, realizzato, è anche questo premio perché, come sottolinea la regista, Vermiglio è un film che ha avuto bisogno di molti aiuti e di molte persone per poter essere quello che è, per non rinunciare a nessuno degli ingredienti che ne costituiscono l’essenza profonda. Il tempo, il silenzio, la montagna, la neve, i bambini, gli animali. Una storia piccola, remota. Delicata e commovente.

Siamo alla fine della seconda guerra mondiale, anche se la piccola comunità montana di Vermiglio vive in un tempo non precisamente identificabile, immobile nei gesti che si ripetono uguali da chissà quanto, nei riti e nelle feste, nei volti che si riconoscono, nel dialetto che unisce. Un tempo sospeso al punto che i soldati disertori che si rifugiano in una malga, almeno inizialmente, non è chiaro da quale guerra siano fuggiti. Vermiglio è soprattutto una famiglia. Un padre – il maestro del paese – , una madre, i figli e le figlie, grandi e piccoli. Una famiglia numerosa e silenziosa, a cui ci avviciniamo a poco a poco nel corso del film, arrivando a distinguere nitidamente tratti e caratteri peculiari di ciascuno dei suoi membri.

Nella prima parte Delpero sceglie di privilegiare l’ambiente, restituito attraverso una serie di scelte stilistiche minimali e rigorose. Il mondo di Vermiglio sembra dapprima quello un po’ fiabesco e delicato di una boule de neige: Delpero si accosta con discrezione, quasi con timidezza a ciò che le è evidentemente caro e che sembra non voler violare. Questo mondo lo ha ricostruito, lo ha in certa misura inventato attraverso la scrittura, eppure è in attesa che esso si riveli, si faccia avanti e si renda intellegibile. Camera fissa, campi lunghi o dettagli di gesti – mungere, versare il latte nelle tazze, consumare in silenzio la colazione intorno a un grande tavolo, camminare nella neve per entrare nella scuola. La luce è fredda, i suoni sono i sussurri, il pianto di un neonato, lo scoppiettare della legna sul fuoco.

Il film ha un andamento lento, senza strappi, benché sia evidente che la quiete e il silenzio iniziali contengano già potenziali incrinature. La guerra è lontana e invisibile (soltanto evocata dal suono degli aerei che talvolta sorvolano la valle) ma c’è. Ed è nella presenza di quei due ex soldati, che stanno in disparte, un po’ alieni: un cugino della famiglia traumatizzato dalla violenza bellica, salvato da Pietro, giovane siciliano rifugiatosi lassù e accolto con diffidenza. Pietro, quando scende in paese per la messa, cattura lo sguardo della figlia più grande, Lucia. Gli sguardi tra i due, e il sentimento che nasce tra loro, sono le prime increspature di una vita che sembra impermeabile ai cambiamenti, capace di assorbire i dolori e i lutti nel perpetuarsi sempre uguale. E mentre scopriamo Lucia attraverso i suoi occhi azzurri che si posano timidamente sul giovane siciliano, scopriamo anche le sorelle e la madre. La più piccola, sveglia e curiosa, e la figlia di mezzo, Ada, inquieta e sospesa tra il trasporto religioso e una sessualità che si fa strada in modo confuso. La madre è una figura dolente e silenziosa, sempre con il capo chino e sempre gravida perché l’essere moglie e madre è la sola identità possibile in quel mondo, in quel tempo. E poi i figli maschi: il più grande, Dino, che non è come il padre vorrebbe che fosse, e i più piccoli, presenze vivaci e disordinate, le cui voci irrompono di continuo e i cui movimenti non hanno ancora la pacata cadenza degli adulti. E infine il padre, il maestro e pater familias che ama la cultura e la musica, che ha uno studio dove può abbandonarsi ad ascoltare i dischi dal suo grammofono, circondato dai suoi libri.

Delpero ci rivela le abitudini e i piccoli segreti di questo nucleo famigliare unito da un affetto autentico e da un calore che si nutre soprattutto di silenzio, di gesti di vicinanza (come le carezze fatte con una piuma nel grande letto in cui dormono le tre sorelle), di dialoghi rarefatti che nella loro essenzialità possono talvolta ferire e talvolta curare. Un nucleo compatto che però non riesce a tenere a bada né le singole individualità, che fanno capolino e si ribellano, seppur in modo dimesso, quasi rattenuto, né le intrusioni del mondo esterno. L’autorità paterna non può essere messa in discussione, e i destini dei figli e della famiglia sono completamente nelle sue mani. È il padre a decidere che solo una delle figlie potrà continuare gli studi, è lui a punire il figlio Dino negandogli il diploma. Un padre severo, che rimbrotta i figli ma che sa anche essere un maestro appassionato e un po’ idealista, che fa ascoltare Vivaldi ai suoi alunni in una scena in cui la macchina di presa, come trasportata dalla musica, attenua la distanza per mostrarci da vicino i volti dei bambini. Vermiglio non è però un film a tesi: è un film su un mondo e su un tempo in cui l’autorità paterna disponeva delle vite di tutti. È una storia di relazioni, in cui il punto di vista, come dimostra la posizione ricorrente della macchina da presa, ha l’altezza dello sguardo di un bambino. E ne ha anche la libertà non giudicante né ideologica.

Il film di Delpero ha un rigore stilistico e una coerenza narrativa molto forti, e strettamente interdipendenti: ci approssimiamo ai personaggi, a una distanza sempre più ravvicinata, ne intuiamo pensieri e pulsioni, senza che nessuno di loro abbia mai davvero il sopravvento. Come aveva mostrato nel primo lungometraggio Maternal (e nei precedenti documentari), Delpero ha una particolare sensibilità nell’osservazione della crescita, nella ricerca di un modo di capire, filmandola, la relazione tra chi è adulto e chi ancora non lo è. Anche Vermiglio è un film sulla maternità, sulle maternità, e sulla crescita, ma è soprattutto un film corale. L’insieme di individualità, rinsaldato dal dialetto, dagli spazi della montagna, da un modo condiviso di stare davanti alla macchina da presa, fa sì che ciascuno dei personaggi (e con essi gli interpreti) abbia uno spazio precisamente calibrato. Nella commistione tra attori professionisti e non, tra adulti e bambini, regna una straordinaria armonia di presenze. Tommaso Ragno, nei panni del padre, imprime un tono grave e austero al suo personaggio, e lo seguono, ciascuna a suo modo, le attrici (da Orietta Notari a Carlotta Gamba, da Roberta Rovelli a Sara Serraiocco) precisamente sintonizzate con il tono del film e degli interpreti occasionali. Martina Scrinzi (Lucia), all’esordio sullo schermo, fa tesoro della sua presenza aspra e timida, e tutti gli altri non professionisti mantengono intatta un’energia imprevedibile, bizzarra, lieve ma costante. Il giusto equilibrio tra ciò che viene detto e ciò che viene mostrato, tra la precisione di ogni dettaglio e la presenza viva e mobile degli attori, fa sì che il rischio del quadro oleografico, stilisticamente troppo perfetto, venga fugato.

Nel mondo di Vermiglio i fatti accadono, il dolore, la morte, la menzogna si insinuano e spezzano gli equilibri nella vita della famiglia e della comunità. Un figlio muore, e ne nascono altri due, la guerra finisce, arriva l’estate, i due innamorati si sposano, l’anno scolastico giunge a termine, e un viaggio in Sicilia rivela la tragedia in cui Lucia si trova suo malgrado catapultata. Eppure tutto scorre con un tratto lieve, in una sorta di de-drammatizzazione, di sospensione. Vermiglio è il racconto visivamente potente della vita che scorre ineluttabile – dolorosa, lieta – in cui Delpero è riuscita, con tenacia, a dare corpo a un sogno che poteva essere raccontato soltanto così.

mariapaola.pierini@unito.it
M. Pierini insegna storia e teorie della recitazione cinematografica all’Università di Torino