Storia e contese dell’interruzione di gravidanza in Italia

Salute delle donne, maternità, aborto

di Tullia Todros

Dopo un lungo, apparente, silenzio i temi che riguardano la salute sessuale e riproduttiva ritornano purtroppo centrali nel dibattito politico italiano e internazionale. La punta dell’iceberg è l’aborto, intorno a cui, come scrivono Gissi e Stelliferi in L’aborto. Una storia, “ruota un dibattito secolare […] che muove dalla scienza, dalle teorie preformiste sulla generazione e si estende alla filosofia, alla teologia e alla politica” e che “pone questioni cruciali: le transizioni demografiche, l’autodeterminazione, la salute come diritto, il corpo come luogo pubblico ed eminentemente politico”.

Le due storiche illustrano come il tema dell’aborto, già affrontato da un punto di vista giuridico e medico, con l’avvento del fascismo diventa politico. La denatalità è definita da Mussolini il problema dei problemi; la Chiesa cattolica introduce la difesa della vita nascente, attribuendo all’embrione diritti uguali (o superiori) a quelli della madre. Nel 1930 il nuovo codice Rocco stabilisce pene severe per chi si sottopone ad aborto e per chi lo procura; inoltre prevede pene, fino alla reclusione, per chi faccia propaganda di pratiche contro la procreazione, ovvero a favore della contraccezione.

Negli anni sessanta la questione della regolamentazione delle nascite diventa un tema centrale a livello mondiale. A questo contribuisce il preoccupante tasso di crescita della popolazione di quegli anni. C’è anche una maggiore attenzione ai diritti umani e fra questi ai diritti delle donne per quanto riguarda la salute sessuale e riproduttiva. In Italia, contraccezione e aborto diventano temi dibattuti su cui si sviluppano le lotte del movimento femminista per i diritti alla salute sessuale e riproduttiva. Vengono varate la L. 405/1975 che istituisce i consultori familiari e la L. 194/1978 che regolamenta l’interruzione di gravidanza.

Quest’ultima ha avuto una lunga gestazione e un difficile travaglio: a partire dal primo dopoguerra fino alla sua promulgazione essa riflette le vicende politiche del nostro paese, dai governi democristiani, alle lotte per i diritti civili, al compromesso storico. Malgrado ciò essa risulta oggi una delle leggi sull’aborto meno restrittive al mondo e più attente alla salute psicofisica delle donne. Tuttavia la sua applicazione è stata sempre difficoltosa e incompleta, sia a causa della diffusa obiezione di coscienza dei ginecologi sia per le ingravescenti carenze strutturali e organizzative, in primis dei consultori familiari, che rendono talora impraticabile il percorso previsto dalla legge per le donne che decidono di abortire.

Parlare di attacco all’aborto è però una distorsione, perché in realtà il vero diritto è quello di decidere sulla propria maternità, non il diritto di abortire. Come puntualizza Luigi Ferrajoli, citato da Gissi e Stelliferi: “Il diritto della donna alla maternità volontaria consiste non tanto in una libertà positiva, ossia nella libertà di abortire che ne è solo un corollario, quanto piuttosto nel diritto di decidere se divenire madri e a non essere costrette a divenirlo contro la propria volontà”.

Il discorso relativo alla maternità è più complesso, perché da sempre le donne sono definite dall’essere o non essere madri. Già nel 1949 Simone de Beauvoir, in Il secondo sesso, affermava che non c’è nessun destino biologico che vincoli la donna al ruolo di madre. Una serie di evoluzioni culturali, sociali e scientifiche sono intervenute da allora, anche se permane la questione di fondo di una cultura patriarcale della famiglia e anche se il discorso sul diritto di ogni donna a essere o non essere madre è diventato mainstream solo di recente, come sottolinea Ilaria Maria Dondi in Libere di scegliere se e come avere figli. L’autrice parte dalla propria esperienza di maternità: dal non volere figli al desiderare la gravidanza, ai primi mesi con il nuovo nato. Rispetto al passato, oggi le possibilità di scegliere se e come avere un figlio sono enormemente ampliate, ponendo dilemmi nuovi. Si calcola che in Italia le donne senza figli nate nel 1976 saranno, a fine storia riproduttiva, il 22 per cento (circa il doppio di quelle nate nel 1950), perché decidono di non averne (childfree) o perché non possono averne (childless). Come mai si decide di fare un figlio? Perché lo si desidera veramente o perché è quello che tutti si aspettano da te? La donna senza figli (single o in coppia) viene spesso giudicata “anomala”, indipendentemente dal fatto che sia childfree o childless. “Le donne senza figli fanno paura” dichiara Ilaria Dondi. Allora si spiegano, per le donne sterili, le storie di ricorso alle nuove tecniche di fecondazione assistita, che sono sempre impegnative sul piano fisico e psicologico e talvolta sono il “frutto di violenza a livello psicologico, verbale e/o fisico, ma anche economico. Il fenomeno, cresciuto con la fioritura della cosiddetta industria della fertilità, resta sommerso, ignorato, oltre che dai media, anche a livello scientifico e medico”. Temi da cui, nel dibattito femminista, si tende a fuggire perché divisivi, mentre sarebbe fondamentale affrontarli senza arroccarsi su rigide posizioni ideologiche.

Quello che si osserva è che, di fronte alle scelte riguardanti la maternità e più in generale la propria vita, oggi la donna è sola. Un’analisi molto interessante che spiega questa solitudine nell’attuale contesto economico e sociale neoliberista si legge in Utopie della cura di Laura Fano Morrissey e Giorgia Serughetti. È ovviamente una condizione che riguarda tutti, in quanto è la visione neoliberista stessa che si impernia sul presunto diritto di ciascuno/a a essere lasciato/a solo/a nel perseguire i propri interessi. Ma perché le donne sono più penalizzate da questo sviluppo della società? Perché “il soggetto forgiato nel mito dell’autonomia di matrice liberale […] non riflette la condizione umana nella sua interezza, ma l’esperienza di un gruppo ristretto, cioè degli individui maschi, adulti, appartenenti alle classi dominanti. Una parte dunque che pensandosi come universale ha condannato all’invisibilità coloro alle cui cure il cittadino sovrano della modernità deve la sua stessa possibilità di persistenza in vita: le donne, gli schiavi, i servi”. È così che la cura, intesa come “l’insieme composito delle attività essenziali della vita” è stata “relegata nelle case, nel privato, separata dagli ambiti della politica e dell’economia, e a essi subordinata, per essere affidata a soggetti esclusi dai confini della cittadinanza”. Centrale in questo discorso è il ruolo del rapporto fra produzione e riproduzione che nell’Ottocento perteneva solo alla famiglia mentre nel Novecento “il welfare state ha internalizzato la riproduzione sociale dentro l’ordine sociale ed economico capitalistico, senza risolvere le disparità di genere e razziali che le erano proprie” e ai giorni nostri “il capitalismo finanziario ha demolito i sistemi di protezione sociale, privatizzando servizi essenziali”.

Il panorama è buio, ma questo libro nasce da una ricerca sul campo in tre realtà che coinvolgono principalmente le donne e che illustrano esperienze di solidarietà e mutualismo e rappresentano il proprio agire come “cura”: pratiche localizzate di autorganizzazione, orientate a rispondere ai bisogni e costruire comunità che lasciano intravvedere un po’ di sereno per il futuro.

tullia.todros@unito.it
T. Todros ha insegnato ostetricia e ginecologia all’Università di Torino