Daniela Tallini
FEMINA GLUCOSIA
Apidra, sei unità.
Alba carica la penna e preme: alterna, il pomeriggio sul braccio, la mattina sulla pancia. Cerca punti che non siano neri di sangue raggrumato, che abbiano dimenticato la pesantezza dell’ago di ieri, di ieri l’altro, di tutti i giorni passati.
Nella stanza solo il respiro rantoloso del padre che veglia supino, avvolto nelle coperte fino alla faccia. La bocca aperta, storta nello sforzo di catturare l’aria che fugge ai polmoni accerchiati dal cancro. Pure il pancreas ha smesso di funzionare: i valori del glucosio sballano, si alzano e devono essere abbassati.
Glucosio, zucchero a sei atomi di carbonio. Nel nome greco già un destino, la dolcezza.
Se non gli inietta l’insulina due volte al giorno lui scivola nel coma glicemico. Una morte amabile.
Alba a tredici anni è zucchero, il corpo morbido fila a passarci sopra la lingua. Per strada le si appiccicano addosso i sussurri e le mani dei maschi. “Si’ ‘no zuccher”.
Lei li lascia fare, non le fanno male. Non più di suo padre, la sera quando torna a casa.
“Sta zoccola tien’ o zuccher” dice alla madre. La spinge nella stanza e si slaccia la cinghia: per mantenerle la purezza nel bruciore delle mazzate.
La chiama zucchero, Alba lo diventa. Perché chi nomina le cose poi le crea: si fa molecola trasparente, attraversa i fori della cinghia, si sperde nel grande mare della materia. Non homo sapiens, altra specie, immunodeficiente alla razza umana: femina glucosia.
Impura come la concordanza tra lingue diverse. Un errore, lei.
La madre l’ha chiamata al telefono, non la sentiva da mesi: “Vieni” le ha detto. E basta.
Alba non ha battuto ciglio, si è tolta il camice, ha fatto la valigia ed è partita: perché lui non può morire così.
Quando il padre tirava fuori la cinghia, Alba poi sapeva rinascere nel miracolo di sei molecole di anidride carbonica legate a sei di acqua e spennellate dalla luce del sole.
Quando il padre la batteva, dopo, Alba apriva la finestra della camera per fare uscire la puzza di cuoio e di rabbia, si sedeva sul cornicione e chiudeva gli occhi.
Fioriva nel glucosio che scorre dentro ogni fibra vitale, nelle vene, nelle arterie, nelle caverne molli di tutti gli esseri viventi. Era la linfa preziosa della vita. Ancora più dolce se la madre abbassava la testa e rimaneva in cucina, se i maschi la toccavano e ne sporcavano la purezza.
Alba sapeva diventare il poema maestoso della fotosintesi clorofilliana, il fluido che circola nella quercia, nel cipresso, nel melo. Anche nell’albicocco centenario del suo giardino, su cui si arrampicava il gatto grigio. Era lo zucchero che scivola nel tronco, stretto a una lunga catena cellulare, la molecola che si aggrega e si modifica.
Ed era capace di mutarsi nella storia infinita della glicolisi, nella forza che muove il gufo e il gabbiano; trasformarsi nel volo del corvo su un ramo, nella danza del moscerino intorno al suo becco giallo. Perché lo zucchero era l’energia che la muoveva, e con lei spingeva tutte le specie viventi, il combustibile della respirazione dell’universo.
Era femina glucosia. L’antidoto a essere suo padre, l’antidoto a essere umana. Il suo dissenso chimico.
Alba aspetta da tempo. Dal tempo della fuga da casa, degli studi di chimica iniziati e abbandonati, dei lavori precari. Negli anni ha assorbito il fradiciume del mondo: si è vetrificata, come lo zucchero quando s’impregna di umidità. Ora è una zolla ruvida e pericolosa. Il suo destino si è compiuto: ha scisso lo zucchero, lo ha guastato in tossico per insinuarlo nel sangue del padre – poco alla volta, con tenacia – come le sue cinghiate si sono infilate per anni nella sua materia tenera. Ora lui è saturo di un danno bianco di cui lei studia la trama, una bava lucida su cui s’invischia ogni giorno.
Vengo per renderti ciò che mi hai dato.
Cura il padre con ferocia, non fa avvicinare nessuno. Aspetta l’ora dell’iniezione, misura, preme. Piccole dosi, perché gli allunghino la sofferenza: se servono dieci unità ne mette otto, quattro se ne servono sei. Lo mantiene in vita, vuole che la sua esistenza duri più a lungo possibile.
È lo zucchero che lo uccide, l’insulina che lo salva.
Il padre vive fin quando lo decide lei, nelle sue mani la data di scadenza. Un legame chimico li unisce, nient’altro: specie diverse, l’umanità non c’entra.
Che sia dolorosa la tua fine. E lenta.
Alba ha ripreso possesso della sua vecchia stanza, ha sistemato i vestiti nell’armadio, con cura. Pantaloni, maglie, biancheria. Ha disposto i libri sulla mensola, ha aperto il computer.
È un tempo lungo quello che dovrà passare lì, vuole stare comoda. Ogni sera, prima di dormire, guarda analisi, risonanze, radiografie: ha catalogato ogni referto in un album, ha raccolto tutte le prove delle malattie del padre in una cartellina. Visibile, raggiungibile facilmente quando ha bisogno di rassicurarsi che lui sta veramente morendo.
Nella sua camera ritorna la bambina di zucchero di trent’anni prima. La porta crepata al centro dai calci del padre, la libreria vuota di libri perché lei non doveva studiare, il testo di chimica superstite, nascosto dietro l’armadio. È di nuovo zucchero, da far scricchiolare sotto le scarpe.
Le basta sfiorarsi la pelle e si radunano i ricordi.
Il solco stampato sulla schiena è un tatuaggio che sa di mandorle e croccante, di zucchero bruciato, di sangue. Percorre la striscia per ritrovarvi lo sbaglio di natura, l’anomalia di essere solo materia, grumo di molecole dolci in cui tutti hanno affondato le mani, carne da disfare. Mai della razza del padre che la pesta – quattro cinghiate con la fibbia, assestate bene perché non si vedano; mai della specie della madre che per paura non guarda e rigoverna in cucina.
La cinghia è poggiata sulla sedia, spenzola come una pelle di serpente. Non gli serve, il padre non lascerà più il letto: i tre buchi nuovi, tondi e senza sfilacciature, non conterranno nei calzoni la sua magrezza malata.
Alba lo guarda, gli aggiusta il cuscino sotto il capo. Da lontano può sembrare tenerezza.
Lui la segue con gli occhi, gli esce un suono stridulo di ventre.
Hai paura. Anch’io l’avevo. Non si è mai pronti a soffrire.
Il padre le chiede dell’acqua, ha le labbra secche e ritorte all’indietro. Il bicchiere gli trema nelle mani, metà del liquido cade sulla traversa rincalzata fino al mento. L’ha messa per il vomito, gli sgorga dalla bocca senza che lui se ne accorga.
“Grazie”.
Alba sa che il padre sta morendo perché quella parola non l’ha mai pronunciata. Le si arricciano le carni a sentirla.
A volte pensa che potrebbe bastare: tornare a casa, rimettersi addosso il grembiule, riprendere a sistemare le medicine sugli scaffali della farmacia. Fare pace con quello che è stato: smettere di pesare, misurare, giudicare la vita come un composto chimico. Ritornare zucchero filante, evitare di rispondere ai perché. Oppure pietrificare il padre, come Medusa, trasformarlo in un blocco di quarzo trasparente. Lui roccia, lei ammasso di zucchero vetrificato. Magari cambiando stato e specie potranno sottrarsi a quell’eterna tenzone, troveranno forse un rapporto.
Alba sfiora la cintura: no, c’è ancora spazio tra i fori e la fibbia di quel cuoio indurito dall’uso. C’è ancora tempo per stare con lui.
Mancherai anche tu, come gli altri. Ma non subito. Impedirò la tua fuga.
Il padre non mangia più, non beve più. Gli ha montato sul letto il cesto con la flebo per idratarlo, la forcella dell’ossigeno gliel’ha inserita nelle narici, i tubi gli solcano la faccia. Alba vince il ribrezzo per la pelle marrone e sottile in cui l’ago non trova mai la vena, carta velina che si sfoglia su coaguli di sangue e di cellule moleste. Sopporta il tanfo di urina che sale dal pannolone: il padre piscia con sforzo – un codice morse – lei sente il fruscio del liquido inceppato che scende. Non vuole decifrarne il messaggio.
Gli infila il cucchiaio in bocca, lo forza a deglutire, lui vomita, lei gli rimette il cucchiaio in bocca. Sopporta tutto Alba, tutto perché lui regga.
Gli parla per tenerlo in vita. Cosa pensa, cosa vuole: frugarlo dentro, oltre il disfacimento del corpo. Lui si scrolla, lo sforzo di rispondere gli tende i muscoli sfilacciati.
“Diminuire la visibilità”. Lo dice in italiano.
L’immortale vuole morire, alla fine l’ha chiesto in un idioma per lui straniero, la lingua di chi sta già nel limbo.
La mia.
Vuole diminuire la visibilità fino a spegnersi.
No, non scomparirai, sono qui per abitare il tuo danno, per esserti custode. Ho ancora bisogno di te.
Inietta l’insulina e spegne la luce.
È a casa da tempo ormai: le giornate si sono allungate, il sole avaro offre una luce più densa. Il padre dura, lei gli sta dentro come un parassita insopprimibile.
Oggi però la sveglia un odore strano, come di mele messe a maturare; un sentore che potrebbe essere per altri di sottobosco e di infanzia. L’aspettava, l’aveva previsto. Mette veloce i piedi a terra.
Alba sa che non c’è niente di buono in quell’odore. Perché ha studiato chimica ma non si è laureata, avrebbe voluto diventare ricercatrice e invece è una commessa.
È il fiato del diabetico allo stadio acetonemico, l’annuncio del coma glicemico.
Suo padre avrà una morte veloce e misericordiosa. Vomito, disidratazione, respirazione ansimante, confusione mentale, coma. Ore, forse un giorno.
Non quello che stava costruendo. Il cancro non se lo mangerà per mesi, non gli pervaderà ogni anfratto buco piega della carne e delle ossa, sempre sempre sempre, fino alla demenza che non sa impazzire.
Alba sa cosa fare, deve iniettargli liquidi per via endovenosa per correggere la disidratazione, l’insulina per sopprimere la produzione di corpi chetonici. Prepara la penna con mano ferma, quindici, venti unità. Sufficienti per riportarlo in vita, almeno per un po’. Per fargli scontare un altro pezzo di infelicità’, per procrastinare la libertà dal dolore a cui approderà presto. Al contrario di lei.
Lo guarda: riposa supino, il naso – a punta come non lo ha mai avuto – sbuca dal lenzuolo bianco, già un sudario. La faccia stravolta, tinta di morte.
Alba ha la penna a mezz’aria, pronta. Pensa che è strano ma ci si abitua a tutto, anche a quelli che ti hanno ferito. E quando sono sul punto di mancare non si riesce a lasciarli andare.
Dalla cucina la madre aspetta che lei continui, che si vendichi, che la vendichi. Perché quello che ci è stato fatto poi diventa l’unica misura del nostro mondo.
E poi lui parla, e la sua voce non è quella del tuono che avvinghia alla terra, la scudisciata nell’aria: è un sibilo strascicato, impastato di dolore.
“Si’ semp’ zuccher, n’atra rrazz, la currea ‘ngopp agliu zuccher nun lassa o sign. Statt’ ferm, basta accussì…”.
Ha ragione, Alba lo sa. Il prima non diventa mai un dopo. Sempre della sua razza, Femina glucosia. Sempre due lingue diverse.
La currea è ancora là, sulla sedia, coi suoi occhielli vuoti: si srotola verso il pavimento a misurare ciò che resta della vita del padre. Pochi centimetri.
Non sei riuscito a bruciarmi, papà. Va bene, basta accussì.
Alba l’afferra, affonda la penna nello spazio ancora intonso tra i buchi e la fibbia: un foro, un altro, un altro ancora, l’insulina si scarica nel cuoio, lo scava, si perde. Di stazione in stazione la via crucis del suo essere zucchero si snoda e si smemora.
Trattiene il fiato sull’atto finale: infila la punta della cintura nella fibbia, dà uno strattone e stringe: il perno metallico riempie l’ultimo buco.
Non c’è più spazio, non c’è più vita.
Ti lascio andare, papà. Vengo con te.
Apidra, trenta unità, l’ago le entra nel braccio.
Alba ritorna molecola, là da dove è venuta, da dove non si è mai mossa. Dilaga, riassorbendosi nel sangue infestato: glucosio che circola nelle vene, morte che libera dal dolore.
Un corpo solo col padre alla fine. Femina glucosia per sempre, pacificata nella propria impurezza.
Per un po’ scroscia felice in ogni grammo della sua carne, sospinta dal cuore di lui che pompa. Poi niente più.
Mai più colpevole, mai più umana.