Breve inventario conclusivo
di Gioele Cristofari
Paul Auster
Baumgartner
ed. orig. 2023, trad. dall’inglese di Cristiana Mennella,
pp. 153, € 17,50,
Einaudi, Torino 2023
Lontano dalle sperimentazioni della Trilogia di New York, con cui alla metà degli anni ottanta inaugurava la carriera di autore internazionale e produceva una sorta di manifesto del postmodernismo, ma anche dall’ampia combinatoria del più recente 4321 (Einaudi, 2017), vero e proprio romanzo-mondo, il Paul Auster di Baumgartner sembra ritrarsi in un territorio narrativamente più convenzionale e materialmente più fruibile. Salvo sorprese, si può a buon diritto parlare della chiusura di un arco, dal momento che lo stesso Auster, malato di cancro e reduce dal doppio lutto per la tragica scomparsa della nipote prima e del figlio poi, ha parlato del volumetto come dell’ultimo lavoro che produrrà. Dato, questo, su cui ha sapientemente battuto la strategia di vendita degli editori, negli Stati Uniti come in Italia (“un capolavoro sul dolore della memoria, l’opera più luminosa dell’autore”, nel risvolto).
Anziano professore di filosofia di Princeton, all’apertura del romanzo Seymour Tecumseh Baumgartner sta lavorando nello studio di casa sua a una monografia sugli pseudonimi di Søren Kierkegaard, quando una tragicomica serie di incidenti domestici, telefonate importune e visite impreviste lo costringe a rievocare la morte, otto anni prima, della moglie Anna Blume. L’azione non procede molto oltre e nel resto della narrazione, dall’aprile 2018 al 3 gennaio 2020, nel chiuso della sua villetta nel New Jersey, Baumgartner ricorda di volta in volta il rapporto con Anna, i tentativi di resuscitarla pubblicandone gli scritti letterari o di sostituirla con nuove relazioni inconcludenti, per recuperare poi alla memoria l’infanzia e l’adolescenza trascorse nei sobborghi di Newark e, tema caro ad Auster fin dall’Invenzione della solitudine, l’improvvisa morte del padre (qui una figura dostoevskijana di alcolista e anarchico, a differenza di quello autobiografico del libro del 1982). L’esile trama è rimpolpata dagli estratti delle poesie e dei racconti di Anna o dello stesso Baumgartner, che di fatto integrano le memorie del protagonista; il più notevole è senz’altro I lupi di Stanislav, lungo resoconto di un viaggio del professore nella città di origine del padre in una Ucraina infestata dai lupi alla fine della Seconda guerra mondiale, che rimanda a certe atmosfere postapocalittiche da Nel paese delle ultime cose.
Nel finale, dal suo lockdown autoimposto, Baumgartner lavora a un ultimo libro, Misteri del volante, “una visione corrosiva della vita umana intesa come un carosello di auto che sbandano, che sfrecciano impazzite sulle autostrade della solitudine e della morte possibile”, nel quale sembra ben riassumersi la paura solitaria e paranoide dell’intellettuale negli anni centrali dell’America trumpiana. Non è un caso, allora, che le vicende dell’anziano professore si concludano alle soglie della pandemia di covid-19, proprio con un (disastroso) viaggio in automobile, unica scena esterna della fiction. A ben vedere, e nonostante l’apparente distanza tematica, Baumgartner ricorda del resto l’ultimo romanzo di Don DeLillo, Il silenzio, pubblicato negli Stati Uniti proprio nell’annus horribilis 2020, in Italia l’anno dopo (da Einaudi): solo, ciò che lì era apocalisse digitale è qui ricerca di isolamento dal mondo esterno. Non cambia però il terrore del contemporaneo sotteso a entrambi i romanzi, evidente anche in certe scelte letterarie comuni, impiego di una forma breve, convenzionalità degli espedienti, esilità della trama.
Tutt’altro che un testamento, dunque, Baumgartner rappresenta più un inventario di situazioni tipiche svuotate dalla carica narratologicamente corrosiva cui Auster aveva abituato il suo lettore. Il discorso è tanto più evidente se si confronta il volume con l’altro romanzo americano da poco uscito nei “Supercoralli” Einaudi, il grosso Le schegge di Bret Easton Ellis. Diciassette anni più giovane di Auster, ma ha esordito quasi in contemporanea con lui (nel 1985 di Meno di zero), lontano dalla narrativa dal 2010, Ellis è quanto di più distante si possa immaginare dal collega, da un punto di vista tanto geografico-culturale (Hollywood contro Manhattan) che politico (bastino le tirate dell’autore di American Psycho contro la presunta cancel culture delle élite democratiche, nei saggi riuniti nel 2019 in Bianco). Ciò è vero anche dal punto di vista della pura narrazione, quasi assente dalle secche postmoderniste di Baumgartner quanto ricca, vivace e retta da una tensione thrilling nelle Schegge: e nel pubblicarli entrambi a distanza di un mese (a ottobre Ellis, a novembre Auster), l’editore italiano sembra implicitamente segnalare che, congedatosi forse dalla letteratura uno dei grandi romanzieri statunitensi contemporanei (nell’anno, ricordiamolo, della morte di Cormac McCarthy), la vitalità del romanzo americano è tutt’altro che esaurita.
gioele.cristofari@uniupo.it
G. Cristofari è italianista e dottore di ricerca all’Università del Piemonte Orientale