Scacciare un dolore con un altro di Alessio Rischia
Yasmina Reza
Conversazioni dopo un funerale
ed. orig. 1986, trad. dal francese di Daniela Salomoni,
pp. 117, € 12,
Adelphi, Milano 2023
Scriveva Nabokov: “La disperazione umana di rado conduce alle grandi verità”. Nel placido mondo antico della campagna francese, in un qualche luogo remoto della Loira, tre fratelli si ritrovano a dover seppellire il padre nel terriccio autunnale della tenuta di famiglia, dove fin da bambini trascorrevano le vacanze raccogliendo cardi nel caldo suolo estivo.
Conversazioni dopo un funerale è la prima opera teatrale di Yasmina Reza, scritta in poco più di sei mesi all’età di venticinque anni tra il 1984 e il 1985, vincitrice del prix Molière, torna in Italia grazie alla casa editrice Adelphi e alla traduzione di Daniela Salomoni. “Parto da un’atmosfera – ci racconta la drammaturga in una sua vecchia intervista – scrivo in maniera molto istintiva, molto musicale. C’è un luogo davanti a me, vedo una scena, quasi un dipinto o una fotografia, e due personaggi. Generalmente inizia così, due personaggi uno di fronte all’altro immersi in un’atmosfera particolare, e si scambiano qualche parola. Da questa cosa così semplice e quasi impalpabile nasce una pièce”.
Un dramma familiare che si dispiega nella silenziosa cornice di un paesaggio čechoviano, in un giorno insolitamente caldo per la stagione, e tuttavia le nuvole non tarderanno ad arrivare, e con esse la pioggia, in una lenta discesa verso il freddo che non è solo climatico. Se la morte di un padre non fosse un evento già di per sé destabilizzante, l’arrivo di una ex amante (Élisa) contesa tra due fratelli, rischia di far esplodere tensioni latenti sottilmente accumulate nel corso degli anni. Da una parte Nathan, il figlio “prodigioso” che riuniva amici e parenti in religioso silenzio mentre si esibiva in piccoli concerti al pianoforte, dall’altra Alex, il minore, in tutti i sensi, come si suol dire dei poeti che vivono all’ombra della storia (lui, che ha sempre vissuto all’ombra del fratello), al massimo poteva fingere di suonare una canna di bambù a mo’ di flauto, nell’imbarazzante riflesso dello specchio (con tanto di musica latino-americana in sottofondo). Infine, Édith, la sorella di mezzo che vive nella solitudine di una relazione fedifraga con il signor “Tse-tse”, uomo particolarmente stimato dal padre: “il tuo più grande successo nella vita, l’unica cosa di cui puoi vantarti è non aver sposato Jean!”.
E poi lo zio Pierre, il guascone del gruppo, l’immancabile parente un po’ volgarotto, il clown perfetto per alleviare il dolore in un giorno di lutto – accompagnato dalla goffa moglie Julienne. Tra scoperte inaspettate (davvero nostro padre “si sbatteva la pedicure”? – “Ma no!… Insomma, forse. Spero di sì!”), e confessioni travolgenti, gli equilibri familiari sono sempre sul punto di collassare. A minare gravemente i rapporti è l’impossibilità di vivere la passione amorosa, e tuttavia, la prossimità con la morte sembra rimettere tutto in discussione: bisogna riaffermare con veemenza la necessità della vita, oppure, semplicemente, “scacciare un dolore con un altro”.
Nel suo laboratorio teatrale, Reza sperimenta una drammaturgia in cui il tempo si polverizza e lo spazio si conchiude in un huis clos dal quale i personaggi non possono fuggire, regalando allo spettatore – e forse anche a sé stessa – quel piacere voyeuristico di sbirciare a distanza di sicurezza i contraccolpi delle relazioni sociali. Fin dall’inizio si percepisce la presenza fantasmagorica di una tragedia che sembra incombere, e tuttavia, Reza non permette mai ai propri personaggi di precipitare nelle languide maglie di un sentimentalismo spicciolo, in nessun caso si rischia un’eccessiva mollezza del linguaggio: il dolore è più vivo quanto più è dimesso, e appare con maggior evidenza quando non è urlato ma sussurrato: partecipiamo a questo sforzo di dignità, tratteniamo il fiato, “niente tragedie…”.
Ecco chiarito il senso della frase di Nabokov, quando ci lasciamo abbacinare dalle emozioni più forti, e la disperazione prende il sopravvento, rischiamo di non cogliere il vero. Nonostante i protagonisti si trovino in una situazione straordinaria, compiono i gesti più comuni, come fare la spesa, spelare patate, o preparare uno stufato. Inquinando la tragedia con la banalità del quotidiano, la drammaturga sembra voler accogliere la sfida di Perec: interrogare il rumore chiaro di un’esistenza ordinaria, riuscire a cogliere, attraverso la pagina, il fondo grigio e statico del nostro esserci. Nathan, Édith e Alex sono ormai persone mature, eppure si aggirano confusi, impreparati ad affrontare i conflitti che li attendono. E in questo magma caotico nel quale cercano di barcamenarsi, si aggrappano come possono ai ritmi indolenti della quotidianità. Alla fine, sembra suggerirci Reza, la vita continua, nonostante le piccole tragedie personali, spelando patate, preparando la cena, facendo un po’ di conversazione. Anche dopo un funerale si dovrà pur scacciare la minaccia del silenzio, e prima o poi, si dovrà pur mangiare: “A tavola!”.