di Carmelo Princiotta
Cristina Alziati
Quarantanove poesie e altri disturbi
pp. 91, € 18
Marcos y Marcos, Milano 2023
Prima che un modo di scrivere, quello di Cristina Alziati è un modo di vivere la poesia: un modo per così dire «incontemporaneo». L’autrice, per esempio, non fa niente di ciò che permette ad altri di accreditarsi e forse anche di imporsi nel piccolo e feroce mondo dei poeti; perciò non ha bisogno di chiedersi che cosa ne sarebbe della sua poesia se non animasse quel blog o quella rivista, non organizzasse quel festival, non dirigesse quella collana, non fosse fra i giurati di quel premio, non curasse (o avesse curato) quell’antologia, non tenesse quei corsi, e così via. Fra un libro e l’altro, sparisce, cambia città, forse anche vita, lotta – è già avvenuto – con la morte, smette di scrivere; quindi ritorna, dopo un lungo intervallo di silenzio, a consegnarci quello che ogni volta sembra l’“ultimo” libro.
C’è qualcosa di estremo, di definitivo, nella sua voce, pure così tersa: vi riconosciamo una durissima intelligenza storica e un altrettanto acuto e acuminato senso della bellezza. Nonostante i suoi «non so», i «forse», i suoi «chi sa», da intendersi come moduli di un’incertezza laica, è come se ogni volta Alziati si sedesse a scrivere, e si alzasse a parlarci, «una volta per sempre», per citare il suo maestro e primo estimatore, Franco Fortini. Fu lui a sostenerne l’esordio in un annuario nel 1992. Più tardi sarebbe venuto A compimento (2005), e poi, nei due decenni successivi, l’acclamato Come non piangenti (2011) e, adesso, Quarantanove poesie e altri disturbi (2023).
Se dovessimo provare a chiudere in una formula stilistica la sua poesia, potremmo azzardare la seguente: chiarezza lessicale più trazione sintattica, in un contesto di grande fermezza ritmica.
La trazione sintattica avviene attraverso una serie di alterazioni nella costruzione della frase («la mia amàca / tesa ai margini acuti di grazia / che un fiore / la ruggine dei rovi trafiggendo / ostende»), che conferiscono qualcosa di latino, in senso tardo-biblico, al suo libro, non solo per costrutti come «alta la luce» (una specie di ablativo assoluto), calchi (come ostende) o veri e propri inserti linguistici («ex ruderibus belli»). È come se i versi fossero stati composti per un salterio laico, o da quello tradotti in lingua d’oggi. La dislocazione ricorre anche a fenomeni tipici del parlato («l’inverno, ormai / non riesce a sterminarlo, il bostrico»). Si genera così uno straniamento, qualcosa che rende questa voce insieme prossima e remota.
Viene da pensare che l’autrice abbia della lingua lo stesso sentimento che serba della storia: confitta nelle date, eppure traducibile nei secoli. Che differenza c’è fra l’iracheno che parla a inizio libro, durante la prima Guerra del Golfo («hanno distrutto tutto»), e, poniamo, il discorso che, quasi due millenni prima, il britanno Calgaco pronuncia in Tacito contro l’imperialismo romano («dove fanno il deserto, poi la chiamano pace»)? Così, inoltrandoci nel libro, leggiamo: «pace o deserto, ormai fa uguale». Oppure, con variazione tragica, in Dintorni: «Hanno fatto fiorire il deserto. / Qui non c’era un deserto». Man mano che la storia diventa “naturale” desertificazione del mondo (o sua artificiale, abominevole fioritura), la natura si fa sempre più “storica” legenda di catastrofi (biologiche, ecologiche): in questo forse sta la differenza attuale, nel senso che i massacri penetrano nelle acque, nell’aria, nella terra, assumendo (come in Zanzotto) consistenza geologica.
La poesia di Alziati è sola, infatti dice “io”; e tuttavia è parlata anche da altri: i morti e i bambini, i poeti tradotti e la figlia Sofia, protagonista di un’indimenticabile sezione, Exclave. Quasi non si contano i discorsi riportati, i verba dicendi, che fanno risuonare la voce di chi è vinto, ma non è rassegnato. Le sue parole stridono, «scricchiano», non sono concilianti. Chiarezza non è qui niente di tenue, soltanto una più netta percezione delle cose, precisa fino a fare male. Ma niente rassicura in questa poesia. E, a volte, questo sembra una speranza.
Riprese persistenti si registrano fra un testo e l’altro, anche a distanza di sezioni: udire è un verbo ad altissima frequenza. Così la ripetizione non è soltanto una strategia costruttiva interna al singolo componimento, ma un raccordo, di rimodulazione o di smentita, fra i vari componimenti. L’effetto d’eco movimenta il quadro. Disturba sia chi scrive sia chi legge. Ne turba ogni certezza, e la allontana. Forse in questo disturbo c’è salvezza. Così, alla fine del libro, che, a dispetto del titolo analitico, si legge come un solo resoconto, non stiamo dalla parte di chi riporta i fatti e le voci. Noi stiamo dalla parte di Sofia, del suo «messaggio», che qui non sveleremo, sperando che altri leggano, e parteggino.