L’immaginazione della fine
recensione di Francesco Guglieri dall’Indice di novembre 2007
Cormac McCarthy
La strada
ed. orig. 2007, trad. dall’inglese di Martina Testa,
Einaudi, Torino 2014
“Nessuna lista di cose da fare. Ogni giornata sufficiente a se stessa. Ogni ora. Non c’è un dopo. Il dopo è già qui. Tutte le cose piene di grazia e bellezza che ci portiamo nel cuore hanno un’origine comune nel dolore. Nascono dal cordoglio e dalle ceneri. Ecco, sussurrò al bambino addormentato. Io ho te”. Un padre e un figlio, senza nome, senza niente che non sia il legame indissolubile che li unisce. Non esiste più nient’altro: non esiste più il mondo, la storia, il tempo, la civiltà, non esistono più le città, le case, le famiglie, non esiste più neanche il cielo – perennemente oscurato, plumbeo “come l’inizio di un freddo glaucoma che offusca il mondo”. Esiste solo la strada lungo cui spingono i loro scarsi averi – qualche coperta, il poco cibo in scatola rimasto – dentro il carrello arrugginito di un supermercato. Si spostano verso sud, verso il mare, dal cuore dell’America al Golfo del Messico, in cerca della speranza di un po’ di calore, di luce. Ma ciò che gli si apre di fronte è un oceano vasto e freddo che ha “la desolazione di un qualche mare alieno che bagna le coste di un pianeta sconosciuto. Più a largo, sulle secche create dalla marea, una nave cisterna arenata”.
Nel nuovo romanzo di Cormac McCarthy, La strada, un non meglio specificato disastro planetario – probabilmente una guerra nucleare, o un meteorite scagliato dall’alto dei cieli – ha posto fine alla vita sulla Terra: ogni forma di vita, animale o vegetale, è stata spazzata via, i pochi sopravvissuti non hanno più nulla di umano e attraversano quest’immensa terra desolata in cerca di cibo come morti che camminano. E poco importa se il “cibo” è un altro essere umano: il cannibalismo è solo uno dei tanti orrori che la fantasia scatenata di McCarthy ci offre, quasi non ci fosse un fondo all’abisso ma solo nuove parole per declinare un infinito catalogo di sofferenze. La catastrofe ha rivelato lo scheletro – come se a un’esplosione sopravvivessero solo le ossa bianche e scarnificate – della società, se non della natura, secondo McCarthy: una brutale lotta per la sopraffazione reciproca, in cui gli esseri umani sono nettamente divisi tra carnefici e vittime, tra cannibali e prede. Sono passati dieci anni da quella catastrofe: padre e figlio sono riusciti a sopravvivere fino adesso, ma non resisteranno un altro inverno. Il romanzo è il racconto del dolente e disperato pellegrinaggio verso il mare, delle difficoltà e degli incontri che accadono loro lungo la via, solo ogni tanto intervallati dai ricordi e dai sogni dell’uomo (soprattutto sulla moglie – la madre del bimbo – che decide di uccidersi piuttosto che sopportare ulteriormente tale inferno).
Tutti i loro averi sono su quel carrello; il cibo è poco e devono periodicamente avventurarsi tra le macerie a cercare dei viveri. Si succedono così una serie di episodi e incontri: la visita alla casa d’infanzia dell’uomo; l’esplorazione di un supermarket abbandonato, il figlio che beve per la prima volta una lattina di Coca-Cola (il bambino è nato proprio nei giorni del disastro, e quindi non possiede ricordi che siano precedenti all’apocalisse: il padre tenta di tramandargli la memoria di un’epoca dimenticata nella cenere che il piccolo non ha mai vissuto). Quando i due incontrano un vecchio sperduto e sotto shock – il cui nome, Ely, è un chiaro riferimento al profeta Elia – questi inizia a blaterare che il bambino è una specie di prescelto, un messia che riporterà la luce nel mondo. E poi ancora treni abbandonati, villaggi devastati, case miracolosamente scampate ai saccheggi: ma sempre all’interno di un paesaggio estinto, infernale, in cui l’unico colore è quello delle fiamme degli incendi che ancora bruciano alberi morti. La natura, come sempre nei romanzi di McCarthy, è uno specchio infranto che non rimanda altro che un riflesso di orrore e mistero impenetrabile, trascendente: un qualcosa che nella distruzione rivela il suo volto terribile e cieco, forse divino, di certo disumano, impietoso, indifferente. La violenza e la brutalità che già erano la cifra caratteristica dei suoi romanzi western così come dell’ultima opera d’ambientazione contemporanea (Non è un paese per vecchi, Einaudi, 2006; cfr. “L’Indice”, 2006, n. 5), assurgono qui a una dimensione allo stesso tempo letterale e metafisica: la morte, la negatività, la caduta sembrano essere gli atomi fondamentali di cui è composta la realtà. E contemporaneamente l’unico orizzonte possibile di un universo gnostico in cui la colpa – l’esistenza – coincide con la pena.
Ma in tutta questa devastazione spicca lo struggente rapporto tra padre e figlio, l’amore insuperabile che li lega. Le poche e asciutte parole che si scambiano sono imbevute di un affetto dall’inaspettata dimensione domestica, familiare. Il loro rapporto, le rassicurazioni che cercano l’uno nell’altro, le storie che il padre racconta al figlio di fronte a una notte senza fine o la fiducia che il bimbo riserva al genitore scrivono pagine di grande emozione, capaci di riscattare – e approfondire – una visione del mondo altrimenti tanto cupa da risultare grottesca. È questa tenerezza, disperata e malinconica, il regalo più importante che McCarthy riserva ai suoi lettori. La strada non è solo un testo visionario e potentissimo, ma anche un romanzo avvincente, spettacolare, ricco di tensione e di curiosità per il destino dei due personaggi. Le loro avventure riescono a tenere il lettore con il fiato sospeso, a farlo appassionare a questo mondo fantastico e pericoloso che ha qualcosa degli zombie movie di Romero. Il tutto viene però filtrato da un’immaginazione della fine quasi beckettiana, che sembra contenere in sé l’intera tradizione “apocalittica” novecentesca, da T. S. Eliot a Philip Dick, oltre che da una tensione morale e stilistica che pochi altri autori oggi riescono a permettersi. Una lingua (resa in maniera eccellente dalla traduzione di Martina Testa con il contributo di Maurizia Balmelli) secca, asciutta ed essenziale, che non ha più Faulkner o Melville come modelli. Se proprio volessimo cercare dei modelli letterari dovremmo rivolgerci più alla tagliente precisione del miglior Hemingway, a cui McCarthy deve anche un certo modo di disegnare il rapporto padre e figlio, il loro immergersi nella natura (anche se nuclearizzata, in questo caso), e una certa idea di “uomo d’azione” che rivive nel personaggio del padre. Ma allo stesso tempo McCarthy riesce a ottenere una lingua solenne, profetica, biblica, in cui ogni immagine diventa immediatamente allegoria, ogni figura è rimando sfuggente a un significato ormai estinto. O forse di là da venire: perché non si può negare il sottotesto mistico, se non letteralmente cristologico, che La strada possiede.
D’altronde non c’è apocalisse che alla fine del mondo non faccia seguire il ritorno del Messia, del Figlio risorto che fonda il regno millenario sulle rovine della storia. Il viaggio dei due personaggi, il destino che aspetta il figlio, la sua empatia, la sua volontà di cercare o di fondare un sistema morale – le continue richieste che rivolge al padre per aiutare le persone e i disperati che incontrano nel loro viaggio, la pietà che riserva ai sopravvissuti – spingono verso questo tipo di interpretazione, senza però mai fornire certezze conclusive. La strada potrebbe essere quasi catalogato come un’opera di fantascienza, ben piantata nella solida tradizione del filone catastrofico-apocalittico, se non fosse anche il romanzo di McCarthy più intenso, visionario e definitivo, oltre che uno dei più belli e struggenti che il nuovo secolo ci abbia, per ora, offerto. Un romanzo enigmatico, misterioso, che da una parte spinge il lettore a cercare una chiave che ne risolva il segreto, dall’altra resta refrattario a ogni tentativo di decifrarlo. Impenetrabile, altero, struggente. Così come le parole su cui si chiude: “Una volta nei torrenti di montagna c’erano i salmerini. Li potevi vedere fermi nell’acqua ambrata con la punta delle pinne che ondeggiavano piano nella corrente. Sul dorso avevano dei disegni a vermicelli che erano le mappe del mondo in divenire. Mappe e labirinti. Di una cosa che non si poteva rimettere a posto. Che non si poteva riaggiustare. Nelle forre dove vivevano ogni cosa era più antica dell’uomo, e vibrava di mistero”.
Al primo volume del dittico di Cormac McCarthy, Il passeggero, L’Indice dedicherà il Libro del mese del numero di luglio-agosto, con uno speciale a cura di Marco Petrelli.