di Giulia Baselica
Nikolaj Nikulin
Memorie di guerra.
Leningrado 1941-1945
trad. dal russo e cura di Elena Freda Piredda
pp. 296, € 20
Guerini e associati, Milano, 2022
Nikolaj Nikulin ha diciotto anni e ha appena terminato la scuola quando, il 22 giugno 1941, l’esercito nazista invade l’Unione Sovietica. Il 27 giugno si arruola volontario nella milizia di Leningrado e nel novembre dello stesso anno viene inviato sul fronte del fiume Volchov, dove avranno luogo alcuni sanguinosissimi scontri. In seguito combatterà nel corpo di fanteria, diventerà comandante di un reparto di fucilieri, poi artigliere. Prenderà parte all’operazione per liberare Leningrado dall’assedio nazista e parteciperà alle battaglie per conquistare Varsavia e Danzica. Combatterà quasi sempre in prima linea, e sarà ferito quattro volte.
Il 7 novembre 1945 si congeda con il grado di sergente e il giorno successivo assiste a un evento che segna il suo avvenire: la riapertura del museo dell’Ermitage. Si iscrive alla Facoltà di Storia, termina gli studi universitari nel 1949, quindi, presso il celebre museo, allora leningradese, prende servizio inizialmente in qualità di guida, poi come consulente e studioso. Diventerà uno specialista nell’arte figurativa olandese dei secoli XV e XVI, pubblicherà numerosi importanti contributi e insegnerà alla Facoltà di Teoria e Storia dell’Arte presso l’Accademia delle Belle Arti.
Nel 1975 Nikulin comincia a raccogliere e a rielaborare le pagine di diario che ha compilato durante la guerra, perlopiù durante i ricoveri in infermeria o all’ospedale militare, integrandole con riflessioni successive, con meditazioni e pensieri affiorati alla soglia della coscienza dopo la guerra e sollecitati da una sorta di urgenza etica: la necessità interiore di affidare alla pagina scritta la propria verità, unita alla consapevolezza della propria miracolosa sopravvivenza. Testi che, sulle prime, non intende pubblicare. Sarà Michail Piotrovskij, il direttore dell’Ermitage, a convincerlo a dare alle stampe le sue Memorie di guerra. Leningrado (1941-1945).
Il volume si apre con uno scritto (Prefazione. La migliore memoria è la verità sulla guerra) di Irina Ščerbakova, storica e co-fondatrice dell’Associazione Memorial. Seguono le Memorie di guerra, con i testi Introduzione, L’inizio, Pogost’e, La 311a divisione fucilieri. La parte successiva è costituita da un nucleo di venti novelle raccolte sotto il titolo La quotidianità della guerra: una sezione composita, di natura decameroniana. La guerra costituisce la cornice, il contesto e l’ambientazione, ed è assimilabile alla condizione di isolamento e di protezione che caratterizza le narrazioni del Decameron, alla cupa minaccia della peste nera che infuria nella città di Firenze. Nell’opera di Nikulin, tuttavia, la cornice e l’ambientazione sono parte integrante delle narrazioni stesse, sono racconti – alcuni brevissimi, di una sola pagina, altri più ampi, di una decina di pagine o più – che offrono punti di vista, dettagli e situazioni collaterali alla narrazione principale, non di rado affidati ad altri narratori, dei quali Nikulin spesso diviene portavoce. La rifrazione del punto di vista che ne consegue conferisce ai racconti un peculiare dinamismo e i narratori sono, di volta in volta, i compagni d’arme dell’Autore, senza distinzioni di censo e di grado, o sconosciuti dei quali egli riporta aneddoti o avventure. Vi prevale il desiderio di narrare, che si sovrappone al pensiero della morte, e i tratti caratterizzanti dei singoli racconti sono comici, surreali, grotteschi, drammatici o, addirittura, licenziosi. La scrittura di Nikulin è letteraria, connotata dal frequente ricorso a metafore originali e a similitudini e l’incipit, il tono, l’essenzialità e la precisione del suo stile richiamano i grandi scrittori dell’Ottocento russo, come Nikolaj Leskov o Ivan Turgenev, in particolare, con le sue Memorie di un cacciatore.
Le Memorie di Nikulin non formano una ricostruzione cronachistica consequenziale, bensì sono un insieme di impressioni con funzione psicoanalitica, o catartica; sono il tentativo di rispondere ad alcuni interrogativi impressi nella coscienza dal tempo della guerra.
Colpisce l’atmosfera distesa, quasi spensierata, dei giorni immediatamente successivi al celebre discorso che Stalin rivolge alla Nazione il 3 luglio 1941. Soltanto un’immagine catalizza il senso di premonizione, sorta di flashforward, di sintesi della tragedia che sta per abbattersi sul popolo russo: una donna, disperata, tenta con tutte le sue forze di impedire la partenza di un soldato della fanteria marina.
Quando Nikulin fa temporaneamente ritorno a Leningrado in novembre, lo scenario è profondamente mutato. Fame, pidocchi, angoscia, la solitudine dell’adolescente che, d’improvviso, diventa uomo ed è circondato dall’estraneità dei compagni: «ognuno si preoccupava soltanto di sé stesso».
All’inizio di gennaio del 1942 l’armata nella quale combatte Nikulin giunge a Pogost’e. Qui ha inizio la vera esperienza bellica del giovanissimo combattente, sgomento per la sorte dei feriti, commosso dall’eroismo istintivo dei cani addestrati al trasporto dei feriti sulle slitte, indignato dalla crudezza dei rapporti fra uomini e donne: «non è una cosa da donne, la guerra». È l’Autore stesso a riscattare la considerazione della figura femminile nell’ambiente militare, divenendo protagonista di una delicata, brevissima storia d’amore, nata in circostanze insolite e complesse che si intrecciano con una solida relazione di amicizia. La giovane donna tedesca si chiama Erika ed è evocata nell’omonima Novella XIX.
A Pogost’e Nikulin compie un rito di passaggio: qui viene schiacciato e distrutto; qui acquisisce l’assoluta certezza dell’inevitabilità della sua stessa morte, ma, sempre qui, avviene anche la sua rinascita sotto un’altra forma: a Pogost’e Nikulin impara a percepire il valore del bene, della giustizia, della suprema moralità.
Più volte l’Autore esprime la propria visione della guerra: le sue Memorie sono anche un’opera di demitizzazione, se non di smitizzazione, della condotta eroica dei generali, alcuni dei quali si distinsero per avidità ed egoismo, oltre che per immoralità. Nikulin rileva una sorprendente differenza tra la prima linea, dove scorre il sangue, dove regnano la sofferenza e la morte, la fame e la paura e le retrovie, dove di norma è insediato lo Stato maggiore. La svalutazione del falso mito propagandato a proprio beneficio dalle alte cariche dell’esercito costituisce uno dei fili conduttori della narrazione di Nikulin.
Lapidario, profetico e tragicamente attuale il seguente interrogativo: «Quanto sarà terribile la prossima guerra se in questa, per vincere, ci è toccato seppellire quasi metà degli uomini russi?» e poi la conclusione del ragionamento, più volte affrontato nelle Memorie: «D’altra parte la guerra è sempre stata una carognata e l’esercito uno strumento per uccidere, un’arma del male. Non ci sono e non ci sono mai state guerre giuste: per quanto vengano giustificate, sono tutte antiumane. I soldati in fondo sono sempre stati utilizzati come fertilizzanti».
Il singolo, il combattente percepisce gli avvenimenti di cui è protagonista attivo o testimone passivo con una relatività sconosciuta in tempo di pace: gli atti più abominevoli sono percepiti come frammenti di quotidianità e la loro portata disumana pare ridursi ai minimi termini nella coscienza di chi ne è testimone, mentre nella vita civile e in tempo di pace fatti assimilabili a nulla più che lievi incidenti o contrattempi vengono ingigantiti e trascendono la loro effettiva innocuità. Analogamente acquisiscono un valore aggiunto i rari e brevissimi momenti di gioia: il soldato Nikulin festeggia il Capodanno 1943 al posto di guardia, al gelo, ma è inebriato dal profumo di una mela congelata contenuta nel pacco inviato dalla sua famiglia, miracolosamente sopravvissuta e sfollata a Stalinbad (oggi Dušambe), la capitale del Tadžikistan e giunto al fronte. Neanche dinanzi al tragico e cruentissimo spettacolo della guerra viene meno il sentimento etico-estetico nell’Autore delle Memorie: «Poi iniziarono i boschi. La vera tajga sconfinata […]. Maestosi abeti di altezza enorme. Tremuli il cui tronco a malapena poteva essere cinto da due persone. Una bellezza indescrivibile». Esaltanti sono per lui, cittadino, la rivelazione della primavera e i giorni stupendi trascorsi nei boschi durante la calda estate del ’43, quando scopre in sé il legame indissolubile con la Madre terra.
giulia.baselica@unito.it
G. Baselica insegna lingua e letteratura russa all’Università di Torino