Un narratore escheriano
di Mario Marchetti
Straordinario Onetti, di cui le edizioni Sur vanno allestendo l’opera omnia spesso in nuove traduzioni e con nuovi interventi di scrittori italiani à la page, in sostituzione, quasi sempre, dei più sofisticati contributi critici delle massime voci della narrativa ispanofona (da José Donoso a Mario Benedetti, da Muñoz Molina a Juan José Saer) che comparivano nelle precedenti edizioni cartonate dai vistosi e massivi colori primari. Presumibilmente un modo per avvicinare il renitente lettore italiano a un autore considerato, a ragione, complesso ma, a torto, poco leggibile. Ultimi titoli pubblicati nella nuova serie dall’elegante copertina nera – dopo La vita breve, Il cantiere, Gli addii usciti nel 2021 – Raccattacadaveri e Il pozzo. Quel che è certo è che ci troviamo di fronte a uno scrittore considerato da tempo un maestro dagli autori di lingua castigliana, com’è confermato dai tanti omaggi che gli sono stati dedicati (tra i più significativi, El viaje a la ficción di Vargas Llosa), pur se occorre dire che il suo ingresso nel canone è stato piuttosto tardivo. Juan Carlos Onetti, nato a Montevideo nel 1909, pubblicò il suo primo libro El pozo, un romanzo breve, nel 1939, e quelli che possiamo considerare i suoi innovativi capolavori, La vita breve, Il cantiere e Raccattacadaveri, tra il 1950 e il 1964. Ma il primo riconoscimento importante gli arrivò solo nel 1980 (aveva ormai più di settant’anni!) col Premio Cervantes: sul suo giungere sempre secondo, si è sviluppata tutta un’aneddotica talora un po’ fantasiosa. Ma in realtà non c’è granché da meravigliarsi se nel 1941 al Concurso latinoamericano de Novela, che aveva intenti diplomatici da parte nordamericana, risultasse vincitore El mundo es ancho y ajeno, il romanzo indigenista del peruviano Ciro Alegría o al Romulo Gallegos del 1967 vincesse il vitalistico La casa verde di Vargas Llosa su Raccattacadaveri, entrambi peraltro con il topos del bordello al loro centro.
Con Onetti, infatti, si entra di colpo nella modernità esistenziale, uscendo da una tradizione narrativa di terra e di selva, spesso di denuncia e comunque intinta di elementi folclorici e per il cono sud, gaucheschi, né in lui troviamo segni di quello che sarà poi definito realismo magico e neppure l’incorporeo fantastico borgesiano. Unico cedimento al colore porteño, se vogliamo, è il tango dell’amato Gardel che fa da sottofondo musicale a un episodio di Raccattacadaveri. Certo non era solo nella ricerca modernista, la rivista “Sur” di Victoria Ocampo vede la luce nel 1931. Comunque sia, il mood esistenziale di Onetti è già definito alla perfezione, per non modificarsi più, nel Pozzo – siamo negli anni trenta – dove sono palpabili gli spiriti di Sartre e di Céline e dei loro Roquentin e Bardamu. Le confessioni di Eladio Linacero sono sigillate dalle parole “Tutto nella vita è merda e adesso siamo ciechi nella notte, attenti e senza capire”. L’uomo è in sostanza gettato in un gioco inventato da altri ed è ineluttabilmente solo. E il suo destino non può che essere il fallimento, questa, forse, la parola più simbolica di Onetti. Così come il suo più perfetto, più sciolto, romanzo è Il cantiere, una struggente epica del fallimento. Ci sono tuttavia elementi che attutiscono il quadro: la sorellanza della carne, la straripante felicità dell’adolescenza, una pietas céliniana nei confronti di tutte le debolezze anche le più abbiette. Dal Pozzo emerge ancora l’atteggiamento infastidito e anarcoide di Onetti verso le tante velleità rivoluzionarie tipiche dell’ambiente intellettuale che lo circondava: ciò non toglie che nel 1974 per l’intransigente posizione culturale sua e della rivista “Marcha” (avevano premiato un racconto bollato come sovversivo, El guardaespaldas di Nelson Marra) incorse nelle ire del presidente vaquero Juan María Bordaberry, uno dei tanti criminali al potere che imperversarono in quegli anni in America Latina; ma dopo un breve internamento in ospedale psichiatrico riuscì a esulare a Madrid dove rimase fino alla morte, lontano dalla mondanità e con strenua dedizione alla scrittura.
Già nel Pozzo, poi, si delineano i tratti che definiranno la sua concezione narrativa e letteraria, rimasta profondamente unitaria fino alla fine. La prospettiva è di continuo cangiante, si parla del “mondo dei fatti reali” e del “ricordo delle cose fantasticate”: pur trattandosi delle memorie di un solo personaggio, Eladio Linacero, non siamo mai ben certi di quale sia lo statuto delle cose narrate, quale sia l’angolatura. Il celebre episodio dell’incontro con Borges, avvenuto nel 1948, e raccontatoci da Rodríguez Monegal nel Prólogo de Obras completas de Juan Carlos Onetti (Aguilar, 1979), in cui Onetti proruppe con “Y ahora que están juntos, díganme, explíquenme ¿qué le ven a Henry James, qué le ven al coso ese?”, ditemi insomma cosa ci vedete in quel tizio: cos’altro sta a significare se non insofferenza per la troppo geometrica e rigorosa permanenza di un certo punto di vista sopra la realtà? E poi sopra quale realtà? È proprio la sua libertà di concezione dell’impianto narrativo ad aver affascinato tanti scrittori che, sulla sua scorta, si sono detti: allora molto è possibile!
È con La vita breve (1950) che Onetti creerà, sotto l’influsso di Faulkner, la sua Yoknapatawpha: la cittadina rioplatense di Santa María, dai tratti provinciali e mutevoli, a mezza via tra Montevideo e Buenos Aires. Lì vivranno e agiranno i suoi personaggi, dall’avventuriero Larsen, ovvero “Raccatta”, allo scettico dottor Díaz Grey, sorta di alter ego dell’autore, dall’adolescente Jorge Malabia al commissario di polizia Medina, dal potente Jeremías Petrus a padre Bergner, dalla maîtresse María Bonita alla fascinosa e ambigua Elena Sala e alla folle e appassionata Julita. È un mondo virtuale compatto che perdura fino all’estremo romanzo Quando ormai nulla più importa del 1994 con fedeltà assoluta. Nella finzione narrativa a inventare Santa María è Juan María Brausen, un agente di pubblicità in crisi, a cui viene richiesto un copione cinematografico. Brausen, per sfuggire alla sua meschina realtà, si sdoppia in due diverse maschere, il protettore Arce e il dottor Díaz, le cui vicende, pur se su diverse dimensioni, si incroceranno e avranno termine, in un’inevitabile débâcle, a Santa María, la sua creatura immaginaria. La novità onettiana e la sua suprema abilità stanno nell’inafferrabile scivolamento tra i vari piani di realtà e di immaginazione: senza che ce ne si renda conto si passa dall’uno all’altro in un anello di Moebius narrativo. Il lettore si limita a percepire un sottile spaesamento. In Onetti tutto è “equivoco, sospettoso, polivalente”, come scrive Donoso (prefazione a Il cantiere, Sur, 2013). Egli costruisce la sua realtà parallela con dei dati reali, ma vale anche il viceversa, in un garbuglio incantatore di cui lo scrittore non perde mai le fila: credi di andare da una parte, ma ti ritrovi in un’altra come nei misteriosi disegni di Escher. L’immaginaria provincia di Onetti non ha spessore storico né mitico, galleggia in un eterno presente, non c’è un autentico passato: “Dietro di noi non c’è nulla: un gaucho, tre gaucho, trentatré gaucho” (Il pozzo). E così nel suo vertiginoso mondo narrativo da episodi in apparenza trascurabili di un romanzo nasceranno, quasi come da cellule staminali, nuovi romanzi che continueranno a scavare nello stesso terreno: da un episodio della Vita breve in cui fa la sua rapida comparsa María Bonita prolifererà appunto Raccattacadaveri con le sue illuse e logore prostitute, commovente specchio di un’umanità altrettanto logora e illusa.
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M. Marchetti è traduttore e presidente del Premio Italo Calvino