Sovrapposizione di temporalità e incrocio di pensieri. Intervista a Salvatore Settis

Intervista a Salvatore Settis di Stefano de Bosio

Recycling Beauty, la mostra da poco conclusasi alla Fondazione Prada di Milano e da lei curata insieme ad Anna Anguissola, è stata dedicata al tema del reimpiego dell’arte classica tra medioevo e prima età moderna. Si tratta di una sorta di terzo tempo, giunto dopo Serial Classic (2015, Milano) e Portable Classic (2015, Venezia), mostre ugualmente promosse dalla Fondazione Prada e dedicate alla serialità e alla riproduzione in scala della scultura greca e romana. Che tipo di visione dell’antico ha inteso far emergere con queste tre iniziative?

Tutte i e tre i casi sono mostre pensate su commissione, per iniziativa della Fondazione Prada, e in particolare di Miuccia Prada e Germano Celant, che purtroppo è venuto a mancare quando i lavori di Recycling Beauty erano ancora in una fase iniziale. A loro dunque spetta l’idea di ospitare sculture greco-romane in spazi di solito dedicati all’arte contemporanea. Ho accolto l’invito con gioia, perché mi dava la possibilità di tradurre in mostra le idee che avevo esplorato nel mio Futuro del “classico” (Einaudi, 2006); in particolare, la radicale diversità e pluralità delle culture “classiche”, da concepirsi non come immobile, glaciale eredità, ma come porta d’accesso (e “ginnastica mentale”) verso le mille diversità dell’oggi.

Il tema del reimpiego appare oggi legato a quello della “biografia” dei manufatti, al loro attraversare “vite” diverse, a seconda dei differenti contesti. Al contempo, nel suo saggio per il catalogo lei insiste sul vero e proprio “collasso del tempo” e sul “corto-circuito” caratterizzanti la pratica del reimpiego. Quale visione della storia e, appunto, del tempo è alimentata da questi frammenti di passato che si inseriscono nel presente?

Nessuna intenzione, da parte mia, di decostruire la sequenza storica degli eventi; ma di mostrarne la complessità, l’intrico di fatti (veri o presunti) che si raggruma su ogni singola opera, la sovrapposizione di temporalità diverse e contrastanti, l’incrocio delle esperienze e dei pensieri. Una visione della storia dell’arte meno lineare, ma più ricca e, crederei, anche più “vera”, dove le opere stesse ci interrogano.

In Recycling Beauty, il ricorso nel titolo al termine “riciclo” non può che risuonare con le contemporanee preoccupazioni legate all’ambiente: in che misura questa “ecologia” dell’antico si rapporta al contesto dell’attuale società turbo-(post)-capitalista? Fa anch’essa parte di quel continuo processo di risemantizzazione che, come illustra anche il catalogo della mostra, caratterizza ogni appropriazione dell’antico? E quale posto, a sua volta, riveste il concetto di “bellezza”?

Come ha scritto Susan Sontag, il Novecento ha marginalizzato il bello come criterio di giudizio, sostituendolo con l’“interessante”; ma (continua Sontag) solo una qualche forma di bellezza, comunque definita, può assicurare la continuità fra natura, arte e cultura. Perciò lo stesso uso di Beauty nel titolo della mostra è un riciclo, un invito a riflettere su che cosa, per ciascuno di noi, meriti questa etichetta. La mostra è concepita come un corpo a corpo: il corpo dell’osservatore e quello di ciascuna delle opere che va guardando. Ecologia del mondo vuol dire continuità fra natura, arte e cultura: perciò la mostra è anche un omaggio a quella potente intuizione di Susan Sontag.

Diversi contributi nel catalogo della mostra aprono su quella che si potrebbe definire una storia globale del reimpiego/riciclo, spaziando dalle società islamiche a quelle precolombiane. In che modo questo allargamento della focale è destinato a cambiare la percezione dell’esempio e della traiettoria storica propri dell’antichità classica mediterranea?

Tutti reimpieghiamo ogni giorno qualcosa (per esempio i nostri vestiti, le nostre posate), ma il riuso di opere d’arte, a cui la mostra è dedicata, è un caso molto speciale. Non si tratta solo di usare di nuovo qualcosa che era stato già usato, ma di rifunzionalizzarlo entro un contesto del tutto nuovo. Il reimpiego di opere d’arte classica nel medioevo ha poi questo di particolare: ci obbliga a riflettere sulla drammatica cesura fra il mondo antico e quello post-antico. A chiederci come mai quasi tutte le opere d’arte greca e romana, anche dei maggiori maestri, siano andate distrutte: parliamo di decine di migliaia di statue di bronzo o di marmo, per non parlare dei dipinti. I bronzi, anche di Lisippo, venivano fusi per farne armi o utensili, i marmi venivano “cotti” per trarne calce. Non solo: ma molto a lungo (mille anni o più) quel poco che restava giacque abbandonato nelle rovine (di Roma, ma non solo) nella generale indifferenza. Eppure, qualche volta, e dal Quattrocento con crescente intensità, quegli inutili marmi cominciarono a essere apprezzati, tesaurizzati, raccolti, “guardati” da artisti, prelati, mercanti; e ne nacque l’idea stessa di collezione; fu poi da quelle collezioni che nacque l’istituzione-museo, a noi tanto familiare (ma il primo museo pubblico della storia, i Musei Capitolini, nasce solo nel 1734). Una mostra sul reimpiego serve (spero) a far riflettere sulle ragioni di quel lungo oblio, ma anche di quell’improvviso ritorno di attenzione e di memoria. Ma era necessario anche suggerire che le pratiche del reimpiego esistono anche in altri orizzonti culturali: lo abbiamo fatto in alcuni saggi/sondaggi del catalogo, per l’antico Egitto, l’islam, l’India e l’America precolombiana, in un salutare esercizio di comparazione fra culture.

L’allestimento di Recycling Beauty è opera di Rem Koolhaas e dello studio OMA. Allo stesso Koolhaas spettavano gli allestimenti di Serial e Portable Classic, il primo contraddistinto dalla scelta – semplice quanto dirompente – di celare il piedistallo di molte delle statue esposte per mezzo della modularità del pavimento dello spazio espositivo (battezzato Podium). Quanto il coinvolgimento di un protagonista iconoclasta dell’architettura contemporanea come Koolhaas ha inciso sui propositi stessi delle mostre e la loro narrazione?

Il dialogo con Koolhaas, una figura di pensatore-architetto che ha pochi confronti (e forse nessuno), è per me un’esperienza di prim’ordine. Rem ha un’infinita curiosità intellettuale, vuol capire fino in fondo le intenzioni di chi ha concepito il progetto di una mostra; ma ha un eccezionale senso dello spazio, della comunicazione, del rapporto fra le opere esposte e lo sguardo degli osservatori. Dopo ogni incontro con lui il progetto che avevo concepito in solitaria riflessione ne esce arricchito, trasformato, radicalizzato. Il nostro dialogo si è molto sviluppato da Serial Classic, la mostra del 2015 con cui aprì la nuova sede della Fondazione Prada a Milano, a Recycling Beauty. In entrambi i casi, la mostra si svolge in spazi progettati dallo stesso Rem, e scolpiti dalla luce del giorno: ma nel 2015 l’edificio era in costruzione mentre nasceva il progetto della mostra, ora invece è uno spazio collaudato da tante esperienze espositive. Allora conoscevo Rem molto meno di adesso. Perciò il nostro dialogo stavolta ha fatto (spero che lo pensi anche lui) un balzo in avanti, e la sintonia delle intenzioni si è fusa in un disegno veramente comune. Il Podium della Fondazione Prada sembrava quasi, con Recycling Beauty in opera, pensato fin dall’inizio per la scultura classica. Lo so che non è così, ma questa impressione l’hanno avuta in molti, e dice qualcosa della convergenza del pensiero di Rem e delle mie intenzioni curatoriali.

La seconda vita dell’antico: inserire il passato nel futuro

di Alessio Monciatti

Recycling Beauty
Catalogo della mostra
a cura di Salvatore Settis, con Anna Anguissola e Denis
e La Monica
pp. 560, 356 illustr. con due mappe pieghevoli, € 150,
Fondazione Prada, Milano 2022

Accanto alla cattedrale di Isernia, sorta su un tempio italico, si apre l’arco di San Pietro, con il suo fornice sestiacuto ornato agli angoli da quattro statue togate antiche; lungo lo stesso corso Marcelli sorgeva la Fontana Fraterna, di schietta cultura federiciana con il vistoso inserto di lastre antiche con delfini e frammenti di iscrizioni. Nella vicina Venafro, l’antica Colonia Augusta Julia Venafrum, la cattedrale sorge nella zona del foro e ha le absidi ornate da inserti antichi, rivolti a chi giungeva da Roma; il Verlasce conserva la forma e le strutture dell’anfiteatro sotto le costruzioni seriori; le strade del centro storico sono disseminate di resti antichi, colonne, mensole e architravi, blocchi squadrati o statue usate come materiale da costruzione. Questi esempi marginali costituiscono altre tappe del viaggio fotografico Living with antiquities, proposto in apertura e in chiusura del catalogo della mostra Recycling Beauty (Fondazione Prada, Milano, dal 17 novembre 2022 al 27 febbraio 2023) e illustrano vari modi nei quali sono usati gli spolia: “la pratica e i motivi del riuso; la disponibilità e la scelta dei materiali; il reimpiego come occasione di una seconda vita dell’antico e lo specifico contributo offerto dalle diverse discipline a questo tema”.

Gli studi rimontano alla riflessione sull’uso di categorie come “rinascita”, “sopravvivenza” o “fortuna”, anche se solo dalla fine degli anni settanta hanno individuato una tradizione, che per l’Italia è stata sistematizzata dalla Memoria dell’antico (1984-86) dello stesso Settis, con la felice scansione formulare di “continuità, distanza, conoscenza”. Per l’occasione sono stati chiamati in causa esempi altissimi: dai crateri con il corteo di Dioniso di Pisa e di Napoli, al pavone di bronzo che dal mausoleo di Adriano approdò nel “Paradiso” del quadriportico di San Pietro, al gruppo marmoreo con un leone che attacca un cavallo dei Musei Capitolini. In tutti questi casi si tratta di un riuso ostentativo che nasce dal riconoscimento del valore estetico: spolia in se, piuttosto che spolia in re.

Ciò che arrivava dall’antichità poteva essere anche utile nell’“economia del reimpiego”. Questa accezione si articola a sua volta nei diversi modi di riusare i materiali, dai pezzi dei marmi colorati nelle opere cosmatesche, alla produzione della calce attraverso la distruzione del pezzo antico. Per le opere intese come tali, e non come mera materia, la distruzione segna un crinale sottile: dalla distruzione fisica iconoclasta a quella del loro significato originario, ad esempio nell’interpretatio christiana. I rinnovamenti che danno nuova vita agli oggetti sono tanti quanti gli oggetti. Prendendo ancora dai casi compresi nel catalogo, si pensi al riuso delle gemme, al rinvenimento e alle diverse forme di valorizzazione dei Fasti capitolini, rinvenuti nel 1546, alle peripezie e alle interpretazioni dell’Adorante di Rodi o ai Troni di Ravenna, riuniti per la prima volta.

Eppure il catalogo ci offre molto di più delle risposte esplorate negli ultimi decenni circa il valore “memorativo” del reimpiego, o su quelli “fondativo” e “predittivo”. Lo può fare perché comprende l’attenzione per le opere e le materie entro la più ampia istanza del reimpiego, di “inserire il passato nel futuro”. Questo salto nel tempo è segnato allora per esempio dai disegni antiquari, per il loro aspetto documentale e per quello interpretativo, o dal riuso degli edifici, come Santa Sofia a Istanbul: prima chiesa, poi moschea, quindi museo e di nuovo moschea. Altresì permette affondi in civiltà “lontane”, semplicemente per la loro attrazione e attenzione verso l’arte del passato (l’antica India, l’arte precolombiana, le terre islamiche). Così facendo, il riuso “che si fa e non si dice”, e quindi è difficile da interpretare, acquista una maggiore comprensività che lo avvicina alla varietà semantica delle applicazioni del riciclare: la bellezza, come dal titolo, ma anche ciò che non è necessariamente individuato come tale. È un cambio di paradigma che Settis spiega nel suo saggio introduttivo, Short Circuits: When (Art) History Collapses: “il gesto del reimpiego agisce dunque come un colpo di spada sul flusso degli eventi … Segna una svolta, un punto di inflessione che deforma la linea del tempo, ne sposta e accresce le coordinate, sollecita la convivenza di più di una temporalità”. Con il risultato che “il gesto del reimpiego crea una rete intertestuale, che contiene le sue componenti ma non coincide con nessuna di esse”.

Il riuso/riciclo comporta un continuo gioco di mise en abîme, ma non è certo un esito secondario del catalogo (e della mostra) la spinta a riprendere il cammino con e attraverso l’antichità; reale con le possibilità di essere sorpresi a ogni angolo, e forse anche solo mentale dentro a questa convivenza.

alessio.monciatti@unimol.it
A. Monciatti insegna storia dell’arte medievale all’Università del Molise